E’ stato Grant “Granti” Dalton a presentare il Protocollo che governerà la prossima Coppa America. Una cerimonia frugale, in perfetto stile kiwi: senza fronzoli, senza fanfare. Grant è l’uomo che ha condotto alla vittoria il team neozelandese, che ha risollevato la squadra dalla sconfitta di San Francisco e che ha prodotto la miglior tecnologia e velocità per vincere alle Bermuda. A dire il vero tra gli attori della vittoria è da considerare l’italo americano Matteo De Nora, che per molti anni ha sostenuto  il team.  Le intenzioni di chi gestirà la “nuova Coppa”, vale a dire il defender Royal New Zealand Yacht Squadron rappresentato da Emirates Team New Zealand e il Challenger of Record Circolo della Vela Sicilia rappresentato da Luna Rossa che hanno raggiunto gli accordi in questi mesi  è quella che potremmo definire di una restaurazione organica. Ritornano molti vecchi voleri del Deed of Gift: temi legati alla nazionalità degli uomini del team e alla separazione delle carriere tra sfidanti e defender che organizzeranno regate separate. Torna come barca il monoscafo, sarà lungo 75 piedi (circa 23 metri) e probabilmente sarà full foiling senza zavorra: un nuovo mostro di tecnologia e velocità, con componenti one design che tutti i team potranno utilizzare per ridurre i costi. Dietro la definizione della regola di stazza, che sarà completa solo in marzo 2018, c’è il progettista francese Guillaume Verdier, che faceva parte del team di Emirates e ha una forte esperienza di monoscafi foiling che partecipano alle regate oceaniche. Ogni team potrà costruire due barche che vedremo in acqua dal 2019 in una serie di regate che precederanno il match. Il clou è nell’estate australe tra il 2020 e il 2021: prima la Christmas Cup e poi in gennaio febbraio le regate di selezione sfidanti.  Udite udite: il Protocollo prevede che se ci saranno impedimenti a regatare in Nuova Zelanda questo potrà avvenire in Italia.
Dalton ha annunciato che lo sponsor principale delle regate di selezione sarà Prada, nasce così la Prada Cup: un passaggio anche questo importante, perché dopo molti anni di Louis Vuitton e gruppo LVMH le regate di selezione cambiano partner (non scriviamo sponsor, sarebbe riduttivo). Le regate di selezione degli sfidanti sono nate negli anni ottanta per volere del barone Bich e del suo timoniere Bruno Trouble, che poi ne è diventato l’anima e che ora è consulente per i neozelandesi.  Defender e Challenger stanno cercando giustamente un mondo per dire cose nuove con il vestito vecchio, la innovazione migliore è quella che forse potrebbe passare sotto silenzio ed è  nella condivisione dei contenuti: la conferenza stampa di presentazione è avvenuta su Facebook e Patrizio Bertelli ha promesso diritti liberi, che significa che i circa due miliardi di iscritti a Facebook (come riferimento di persone attive sul Web) potranno essere virtuali spettatori di un canale streaming. Vogliamo i giovani, hanno detto, e fanno bene. La vela non può essere, per citare un film “uno sport per vecchi”. Cambieranno forse i parametri della produzione tv, tuttavia è un passaggio decisivo che potrebbe anche trascinare in questo destino anche altri sport. La Coppa America, da quando gli americani hanno battuto gli inglesi un secolo e mezzo fa, segna la rotta. Luna Rossa avrà la sua base a Cagliari, confermato lo skipper Max Sirena, nel board di gestione assieme a Patrizio Bertelli, ritorna Marco Piccinini. Facile prevedere la conferma di molti velisti che hanno fatto parte delle diverse sfide della Luna. Con questa sfida, va scritto, Patrizio Bertelli, che una volta si è ritirato, con sei volte supera nella storia sir Thomas Lipton che è arrivato a cinque.

Per lanciare la sfida ci sarà tempo dal prossimo gennaio fino all’estate del 2018. Ora la domanda che sta a cuore ai potenziali team (e in Italia ci sono almeno altri tre sindacati che sognano di lanciare la sfida) il budget previsto… considerando che bisogna costruire due barche, alla prima edizione con un nuovo regolamento difficile essere competitivi con una sola, che l’equipaggio sarà di dieci dodici persone, che il team sarà di 80/ 100 persone almeno, che ci sono almeno sei eventi di avvicinamento alla Coppa si può ipotizzare una cifra  di almeno 70 milioni di euro per partecipare. Forza, iniziamo la colletta.

I kiwi ci sono riusciti. Riportano a casa il trofeo che, conquistato una prima volta nel 1995 era partito per Valencia nel 2003 e poi per San Francisco nel 2010. Emirates Team New Zealand conquista la Coppa America per la seconda volta con orgoglio nazionale e con una preparazione meticolosa. In nuova Zelanda la vela è sport nazionale, un  vittoria sarà celebrata con il massimo delle grandi feste e celebrazioni. Il Viaduct Basin di Auckland, Queen Street saranno il percorso di un bagno di folla per il Ceo  Grant Dalton, il timoniere Peter Burling, lo skipper Glen Ashby e l’equipaggio tutto. Un insieme giovane e ricco e pieno di talenti, che oltre alla tecnica raffinata ha avuto il merito di saper mettere a punto la barca in maniera meravigliosa. Il punteggio della vittoria lascia pochi dubbi sulla supremazia del team kiwi, Oracle a quattro anni di distanza dal furioso “come back” di San Francisco non ha saputo esprimere lo stesso potenziale di crescita. Anzi, il timoniere James Spithill è sembrato appannato nei confronti di Burling. Si pensava che il giovane kiwi avesse delle soggezioni nei confronti del grande campione vincitore due volte del Trofeo. Invece no. Burling ha, in termini velici, “portato a spasso” l’avversario in più di una partenza.  Il punteggio sa molto di rivincita, anzi quasi di punizione otto regate vinte contro una, punteggio di 7 a uno. La regata finisce nelle lascime americane, Ellison sconcertato da quanto successo.

Quali sono le chiavi della vittoria? Sul piano umano l’incontro con la freddezza di Peter Burling, fresco vincitore di una medaglia d’oro alle Olimpiadi di Rio che ha effettivamente un carattere spavaldo, lontano dalle incertezze di Dean Barker che lo ha preceduto, e l’esperienza di Glen Ashby, scelto anni fa per la sua esperienza nei multiscafi. Sul piano tecnico le innovazioni sono molte e danno la misura di come i designer, tra cui qualche italiano, hanno interpretato al meglio il regolamento. Intanto la produzione di energia a bordo (sotto forma di olio idraulico in pressione) ottenuto con quattro ciclisti e non con quattro “grinder”. Con le gambe si riesce a eprimere uno sforzo più continuativo oltre che percentualmente più potente. La mancanza di energia spegne la barca, è quasi sempre il motivo dell’interruzione del foiling. New Zealand ha imbarcato il ciclista professionista Simon van Velthooven per questo ruolo.  Anche altrove hanno cercato atleti specializzati: su Artemis un canoista per il ruolo di grinder.
Lo skipper e tattico Glen Ashby ha ideato un sistema di controllo della randa che non utilizza la tradizionale scotta, rimasta come memoria  dell’antico su tutte le altre barche,  ma un sistema idraulico che gli consente soprattutto di regolare il twist, parola difficile da tradurre più che l’angolo di scotta. Questo cambia le condizioni quando bisogna controllare lo sbandamento della barca con il variare del vento. E’ un po’ quello che sulle barche tradizionali è la funzione del vang. Altro grande vantaggio dei kiwi è stata la possibilità di poter utilizzare quattro configurazioni per i foil e non solo due come gli altri team. Il regolamento consente la costruzione di quattro foil (due coppie) e la variazione del 30% della loro superficie. I kiwi hanno realizzato un sistema smontabile delle “tip” (la parte terminale del foil) cui gli altri team hanno rinunciato, e questo rende più flessibile il sistema e il tuning della barca a seconda del vento previsto, operazione fondamentale per le migliori prestazioni. Il tuning dipende dalla intensità del vento:  con più vento pinne corte, perché con maggiore velocità il sostentamento è migliore, con poco vento pinne lunghe per restare in volo. La questione del volo è poi stata affrontata in maniera radicale. Volare significa infatti muoversi in un mondo a tre dimensioni e non più a due. Sinistra destra, alto basso. Per imparare alla perfezione i kiwi si sono rivolti a un mago dei droni, un fotografo che è stato in grado di far volare il suo drone davanti alle barche a cinquanta centimetri dall’acqua. Con il suo aiuto i tecnici hanno sincronizzato i dati dati delle telecamere di bordo con le prestazioni per riuscire a indagare meglio ogni evento e da questo imparare la conduzione. Un sintomo in più di come queste barche siano entrate nella generazione “videogioco” e come i timonieri nativi abbiano riflessi e tecniche per poterle condurre. Per carità: ci vuole anche tutto il talento velico per farlo.

La Coppa nella sua valigia Louis Vuitton vola verso la Nuova Zelanda per ritrovare il suo posto nella sala al primo piano del Royal New Zealand Yacht Squadron. Non ci sono solo risvolti sportivi ma anche economici per il piccolo stato australe. L’industria nautica vale un miliardo di euro ed è considerata tra le prima del paese, che ha una forte vocazione agricola. Nel 2003 perderla è stato un duro colpo, che era stato sottovalutato perfino dal Governo. Adesso i kiwi faranno di tutto per tenerla a lungo nella City of Sails.

 E’ il primo progetto e la barca entry level di una serie di modelli di dimensioni maggiori destinati a diventare benchmark, nuovi riferimenti per il mercato di barche da crociera veloce. I nuovi Eleva Fast Cruiser sapranno abbinare la facilità di conduzione anche in equipaggio ridotto e con manovre assistite a ottime prestazioni in acqua, diventando cruiser totali senza limiti di condizioni marine. Progettati per rispondere alla impegnativa classe di navigazione A, conservando  un design pulito, innovativo e molto personale, che diventa una autentica firma riconoscibile in un panorama di concorrenti molto simili che giocano tra loro su piccole differenze. Il futuro di Eleva è fatto di autentici cruiser che sapranno farsi notare anche in regata e non di carene nate per competere tra le boe e addomesticate alla crociera. Tutto frutto di una progettazione integrata che parte dalla carena ma non dimentica le necessità ergonomiche.

Eleva è un nuovo marchio che si inserisce nel mercato dei fast cruiser con una missione precisa: barche a vela di alta qualità dedicate al gran turismo nautico, alla crociera veloce dove l’abitabilità e il comfort si sposano con il piacere di andare a vela e alle doti marine.  Per arrivare a questi risultati la struttura di ogni modello nasce da un team di esperti, che sanno infondere nel prodotto il meglio della tecnologia contemporanea in termini di costruzione struttura e prestazioni ma anche che sanno indagare gli aspetti funzionali più semplici, quelle piccole cose che finiscono per essere determinanti per godere in pieno il piacere della grande crociera. L’armatore che sceglie Eleva si inserisce in un team che sa guidarlo nelle sue scelte e ne interpreta i reali bisogni nautici. Eleva Yacht nasce presso Carbon Line, un noto costruttore di imbarcazioni, per il progetto è stato scelto il progettista Giovanni Ceccarelli.

Il progetto è sviluppato dallo studio Ceccarelli Yacht Design che è intervenuto nei diversi aspetti:  linee di carena, esterni e coperta, interni e strutture. Pur partendo dalle linee di carena, pensate per un dislocamento medio leggero e con l’ausilio del CFD (Computational Fluid Dynamics) ha stato realizzato il design esterno e quello interno senza scendere mai a compromessi. Lo stile esprime linee che sono direttamente legate alla funzione come il fregio nel mascone a prua che ha la funzione di deflettere l’acqua. La sheerline  è caratterizzata da un motivo ad onda che è una novità assoluta nel mondo delle barche a vela, questo oltre a dare una forte personalità al progetto  permette di avere una prua alta sull’acqua che la renderà meno bagnata in navigazione e una tuga leggera che si ferma subito a prua via dell’albero.

 Prestazioni Le linee d’acqua con sezioni di poppa larghe e svasate, relativamente strette al galleggiamento con importanti volumi di prua rendono la barca stabile e bilanciata oltre che veloce in tutte le andature e condizioni di vento. La grande stabilità di forma è pensata al fine di avere ottime prestazioni  nelle andature larghe e portanti sotto gennaker  per raggiungere il massimo piacere di timonare, unito ad una facilità di conduzione e sicurezza di navigazione.  In caso di traversata atlantica The Fifty può esprimere elevate medie giornaliere di trasferimento, che superano le 200 miglia per giorno.  Queste forme di carena permettono anche di sviluppare velocità di crociera a motore elevate, grazie allo scafo che facilmente supera la velocità critica, un altro elemento di comfort soprattutto nelle estati mediterranee. Il doppio timone oltre alla distribuzione dei volumi consente una grande stabilità di rotta e facilità di conduzione anche con autopilota, peculiarità delle barche nate per la conduzione in solitario per le regate oceaniche.

 Costruzione. Per la progettazione delle strutture è stato fatto un grande lavoro di dettaglio nel rispetto delle normative ISO  categoria A, la realizzazione sarà fatta utilizzando le migliori resine e tessuti attualmente in commercio. Tutto il processo di realizzazione di scafo e coperta è in infusione,  garantito dalla grande esperienza e professionalità di Carbon Line, struttura unica in Italia con questo potenziale specializzata in infusione di imbarcazioni di grandi dimensioni in grado di dedicare un cantiere intero per la produzione delle barche a vela.  Tutta la filiera produttiva è realizzata e controllata internamente fin dalla costruzione dei modelli con seste e fasciame mediante taglio con macchine a controllo numerico e poi con la realizzazione di stampi femmina con resine caricate.
Lo scafo  è laminato con tessuti di vetro e resina epossidica con il processo di infusione in 3 step, con la prima fase che riguarda la infusione della pelle esterna, la seconda l’incollaggio dell’anima sotto vuoto e la terza fase l’infusione della pelle interno. L’obbiettivo è di donare maggiore robustezza e leggerezza allo scafo, grazie a un più accurato controllo nel processo stesso. Le strutture dello scafo sono a loro volta tutte infuse, sempre con resina epossidica e anche loro applicate in tre fasi di processo, prima i longitudinali alti, poi i madieri, la terza fase è la posa dei longitudinali centrali. Per i rinforzi delle strutture si impiega il carbonio, compresa la zona di sostegno della chiglia. Le paratie sono tutte strutturali, infuse su placca con resine epossidiche, incollate e resinate a bordo. Le lande strutturali sono di carbonio, laminate con il processo del sottovuoto.  La coperta è interamente realizzata di carbonio con resine epossidiche in infusione, la soluzione è stata scelta per avere un miglior rating con il regolamento di stazza ORC e abbassare il baricentro e limitare i pesi in alto e rendere l’insieme scafo/coperta più rigido.
Tutte le varie fasi di lavorazione del composito sono controllate con processi accurati, che prevedono il controllo continuo delle temperature dell’ambiente e dei manufatti durante l’iniezione della resina che viene portata alla giusta temperatura per avere in tutti i punti lo stesso grado di viscosità; inoltre l’elevato numero di punti di infusione garantiscono lo stesso grado di catalisi in diverse zone dello scafo. Per ottimizzare le migliori caratteristiche della resina epossidica i manufatti vengono postcurati in un forno di grosse dimensioni che è in grado di raggiungere gli 80°. La chiglia è realizzata in acciaio scatolare ad alta resistenza  con bulbo in piombo al fine di abbassare  il centro di gravità ed aumentare il momento raddrizzante in maniera considerevole.

Coperta e piano velico – Il pozzetto di The Fifty è il più grande tra quelli delle imbarcazioni di 50 piedi attualmente in produzione.  E’ nato per vivere il mare in crociera ma si rivela ergonomico se usato in regata o in equipaggio alla ricerca di prestazioni e regolazioni rapide. Il trasto della randa davanti al timoniere è una garanzia di sicurezza con vento forte e conserva le potenzialità di regolazione che servono ad un velista evoluto per regolare al meglio le vele.  Il piano velico è caratterizzato da un albero  posizionato circa a mezza nave, che permette di avere una distribuzione della tela esposta molto equilibrata sia nelle andature di bolina che alle andature portanti. L’armo è frazionato al 90% e sono previsti un genoa al 104% di LPG , una trinchetta ed un Code 0 montato sul bompresso sul quale può essere armato anche il gennaker.

Il layout della compartimentazione interna prevede la distribuzione ormai classica per unità di questa dimensione: tre cabine e due bagni di cui uno dedicato alla cabina di prua, considerata armatoriale e uno alle due di poppa e per uso diurno.  Mentre la disposizione delle cabine letto non cambia è prevista una opzione per la cucina, che può essere come da progetto originale a centro barca oppure in posizione più classica in prossimità della scaletta di discesa. Anche il divanetto centrale può essere trasformato in tavolo carteggio.

Gli interni sono pensati per vivere il mare con ampie parti vetrate ed aperture in tuga per un corretto movimento dell’aria questo per il piacere di abitare anche l’interno della barca.  Gli arredi sono strutturali, in gran parte realizzati in composito poi rivestito di essenze di legno  prodotte da ALPI , che offre una ampia scelta di essenze che abbinato alle scelte dei  tessuti per i rivestimenti saranno parte della personalizzazione che ogni cliente vorrà proporre.  La finitura di ogni barca sarà personalizzata in base alle esigenze della committenza. Puntando alla qualità è stata fatta una grande ricerca per i materiali, gli impianti e gli accessori le finiture.  Ogni dettaglio è stato scelto  in armonia con il progetto per restituire quel carattere solido e innovativo che fa di Eleva The Fifty una barca che guarda al futuro rispettando la tradizione.

THE FIFTY
Dati tecnici / Technical data
Lunghezza fuori tutto/Lenght overall (with bowsprit)

m 16,50

ft 54,12

Lunghezza carena / Hull lenght

m 15,24

ft 49,99

Lunghezza al galleggiamento / LWL – Light dspl

m 13,85

ft 45,43

Larghezza al galleggiamento / BMAX

m  4,86

ft 15,94

Immersione / Draft  – Standard

m 2,87

ft 9,41

Immersione / Draft  – Chiglia corta – Short keel

m 2,45

ft 8,04

Dislocamento a vuoto / dspl light

kg 10500

lbs 23100

Dislocamento carico / dspl load

kg 12900

lbs 28380

Zavorra / Ballast – Standard

kg   3900

lbs   8580

Motore /Engine Volvo D2-75 Saildrive

cv 75

hp 75,00

 PIANO VELICO / SAIL PLAN
Sup. velica bolina / Sail area upwind

mq 154

   sqft   1657,64
Randa / Main

mq   88

sqft   947,22

Fiocco / Jib

mq   66

sqft   710,42

Gennaker

mq 240

  sqft   2583,34

MISURE PIANO VELICO / RIG AND SAIL DIMENSIONS
P   m  20,5

ft 67,24

E   m    6,8

ft 22,30

I   m  20,6

ft 67,57

J   m    6,0

ft 19,68

LPG MAX

m    6,3

ft 20,66

CAPACITA’ SERBATOI / TANK CAPACITY
Carburante / Fuel

lt  270

Us gal  52,00

Acqua / Water

lt  510

Us gal 114,4

Acqua calda / Hot water

lt   40

Us gal  10,40

Acque grigie / Grey water

lt   45

Us gal  11,70

Acque nere / Black water

lt   90

Us gal  23,40

www.elevayachts.com

Alan Bond, il primo sfidante che sia riuscito a strappare l’America’s Cup agli americani (nel 1983) diceva: “chi si illude che la Coppa non sia una questione economica è un ingenuo”. Bond, australiano qualche anno dopo la vittoria ha fatto bancarotta. Era stato in grado di comprare nel 1987 gli Iris di Van Gogh per le cifra più alta mai battuta per un quadro fino a quel tempo, 53,9 milioni di dollari. Cifra poi battuta con un quadro di Jasper Jones. E la Coppa che si è corsa a Bermuda non va tanto lontano da questa regola aurea. Le isole sono state scelte per il campo di regata per la loro conformazione, ma anche per gli investimenti del Governo locale sia nei confronti del territorio sia verso l’organizzazione gestita dal defender Oracle e da Acea (America’s Cup Event Authority) di cui era presidente Russell Coutts. Un totale di 77 milioni di dollari, di cui 15 per Acea, 22 per infrastrutture (che restano), più meno quello che spende un team per partecipare.

Misurare il beneficio per le isole che sono considerate il luogo più costoso del mondo non è facile. Una bottiglia di acqua neozelandese o anche uno dei nostri marchi costa al supermercato quasi tre dollari, una mela un dollaro e mezzo. Il tassista interrogato risponde “è andata bene, quasi tutti hanno avuto qualcosa, è arrivato qualche migliaio di persone”. Altri pareri non coincidono, qualcuno scrive di alberghi che non si sono riempiti di tifosi e pubblico ma dei soliti turisti in cerca di spiagge.  Alle Bermuda abitano 65000 persone, e lo spostamento di qualche migliaio di persone che in una grande città di mare farebbe sorridere qui diventa sensibile. Nei giorni migliori degli eventi organizzati a Napoli si è arrivati a contare 50/60 mila persone presenti sul lungo mare, e non era vera Coppa America.   ACEA ha cercato di portare a casa denaro ovunque, dai diritti Tv ai biglietti. La produzione Tv meravigliosa per un evento di barche, cui sono dedicate 120 persone come a San Francisco. Tuttavia l’operazione è riuscita parzialmente, i dati di pubblico presente fisicamente sono molto modesti: il villaggio è pieno la sera quando ci sono i concerti e i Dj set che di giorno durante le regate. In molti casi i telespettatori hanno preferito rinunciare alle dirette tv per non pagare gli abbonamenti, anche alle app per tablet. Come ha dichiarato Matteo de Nora Team Principal di ETNZ in una intervista il problema della diffusione Tv diventa cruciale per assicurare pubblico alla manifestazione.

C’è anche un retroscena difficile da verificare ma di cui si parla con una certa insistenza. Il board dei director di Oracle avrebbe pregato Larry Ellison di spendere meno per la Coppa e lui stesso si sarebbe un poco annoiato del giocattolo e avrebbe detto ai velisti “cercate di essere autosufficienti”, ovvero pagate le spese con l’organizzazione e gli sponsor. Questa posizione potrebbe ragionevolmente spiegare anche la perdita di competitività del team velico e la sconfitta che si prospetta, ma non si spiega con il patrimonio personale stimato di Ellison in 50 miliardi e la sua natura di padre padrone dell’azienda. Per Emirates Team New Zealand  è facile spendere poco: sono abituati all’economia da sempre, la loro campagna vincente del 1995 è stata una delle più misurate della storia, e da allora è difficile che il denaro esca dal portafoglio senza motivo. Il team kiwi è sostenuto da tutta la nazione, in altre edizioni il Governo è intervenuto direttamente perché ha capito, purtroppo solo dopo aver perso nel 2003, che la Coppa significa avere un driver per l’economia del paese dove l’industria nautica che vale circa 1 miliardo di euro è tra le prime del paese e il turismo aveva goduto di una accelerazione, così come gli investimenti edilizi a Auckland. Una situazione completamente diversa, per interessi e dimensioni, da quella che si vive a Bermuda.

Per il dream team americano invece non avere denaro a fiumi diventa presto soffocante. E’ anche qualcosa di insito nei caratteri delle due nazioni. Quanto hanno speso? Sono stime ma ragionevoli: 50 milioni di dollari per i neozelandesi, 90 milioni di dollari per gli americani. Cifra simile per gli svedesi di Artemis. Solo gli inglesi di Land Rover BAR, guidati da sir Ben Ainslie si possono considerare i grandi battuti della edizione 35 della Coppa hanno speso di più dichiarando un budget di 110 milioni, di cui circa 60 raccolti tra gli sponsor maggiori, una ventina dalla città di Portsmouth che ha messo a disposizione base e strutture, più le donazioni degli stakeholder tra cui numerosi lord e sir. Gli altri sindacati ovvero i francesi di Groupama, i giapponesi di Softbank Team Japan, più o meno valgono 30 milioni e sono stati sostenuti da Oracle stesso con forniture di design e materiali. Uno dei quesiti per la prossima edizione è proprio come non perdere partecipanti, come riuscire a mantenere alto il livello di attenzione. C’è chi sogna le grandi edizioni della Coppa: 87 in Australia, 92 a San Diego, 2007 a Valencia, con tante squadre interessi ed eventi. La ricetta o la responsabilità  è in mano al prossimo vincitore.

Ernesto Bertarelli è alle Bermuda con il suo favoloso Vava2, nave a motore su cui ha lavorato per due anni al design, che è costata altri due anni per la costruzione. Si sposta ogni giorno cambiando spot nella baia. Segue in particolare il circuito Red Bull dove è iscritto un team svizzero, ma è qui ovviamente per la Coppa America. La sua passione. Sono tutti convinti che ritornerà. Lo farà, probabilmente, se restano i multiscafi, che gli sono sempre piaciuti e con cui ha corso il Bol D’Or la famosa regata su lago di Ginevra. Berterelli e il suo Alinghi hanno scritto la storia della Coppa America dal 2000, quando si è presentato a Auckland per assumere Russell Coutts e i suoi fedelissimi, fino al 2010 anno in cui è stato sconfitto da Larry Ellison con BMW Oracle. “Sono circolate voci sulla mia intenzione di fare il Challenger of Record – ha detto – non lo farò”.

Possiamo dire che finalmente si gode la Coppa America da spettatore?

“Sono qui sereno, neutrale, me la godo come una bella festa e con me sono tutti simpatici. Per una volta non ho nessun problema con nessuno, mi diverto e non è lavoro. La Coppa fa parte della mia vita ce l’ho nel sangue.  Sono stato invitato sulla barca francese da Franck Cammas ed è stato molto divertente. La cosa di cui sono più orgoglioso oggi sono i dieci giorni che ho passato qua e l’amicizia con le persone che ho incontrato in questi anni. Da chi lava il tender ai giornalisti, agli atleti. Mi hanno accolto bene anche dopo una edizione mancata”.

Le piace Emirates Team New Zealand?

“Sono tutti sorpresi dalla velocità dei kiwi e ancora una volta hanno dimostrato di avere inventività: anche solo da vedere la barca è più bella di quella americana. Nel primo week end c’è stato il vento giusto vediamo se aumenta cosa succede, non è ancora fatta”.

E’ vero che ha fatto la pace con Russell Coutts?

“Ho visto Russell,  sono andato a casa sua e abbiamo discusso di tutto ma soprattutto non di vela. E’ sempre difficile sapere cosa pensa lui ma credo di alcune cose sia soddisfatto. Il prodotto televisivo è buono, le regate delle selezioni sono state interessanti combattute”.

Pensa che Peter Burling sia il Russell Coutts del nuovo decennio?

“Si, ha proprio lo sguardo del killer. Penso che sia un vero talento e mi sembra che sia anche un ingegnare capace”.

Se vince la Nuova Zelanda ci sarà un ritorno ai monoscafi?

“Io penso che sarebbe un grandissimo errore perché oggi se si deve fare un monoscafo moderno bisogna comunque aggiungere qualcosa sotto, foil derive basculanti, e la barca diventa complicata. Personalmente non credo fatto al monoscafo, agonisticamente ho iniziato con i multiscafi e li trovo entusiasmanti. Bisogna anche comprendere che c’è un problema di concorrenti, quando si potevano costruire più barche una delle due utilizzate in una edizione poteva andare a un team che entrava, venduta o in prestito nella successiva.  Adesso non c’è questa possibilità ed è difficile fare esperienza e avvicinarsi al livello necessario e acquisire velocità. Penso che il problema sia lo stesso qualunque team vinca. Sarà difficile trovare concorrenti”.

Che formato suggerisce per una prossima Coppa, se fosse nella stanza dei bottoni a decidere cosa proporrebbe?

“Se dovessi fare il COR di sicuro manterrei le barche, queste perché ce ne sono già sei. Darei un piccolo vantaggio alle squadre che entrano come si fa in certe classi dove ai nuovi arrivati si danno un paio di vele in più. Una squadra nuova potrebbe avere qualche foil in più, in maniera che se sbaglia clamorosamente può rientrare in gioco. Cercherei di fare la prossima edizione tra due o tre anni al massimo e non quattro.  Due anni non è male anche per una squadra che arriva nuova. I costi sono minori. Farei molte più regate di circuito. Lascerei stare gli AC 45 che non significano più nulla e non vanno in foil con poco vento. Farei  al più presto regate di circuito con le barche di Coppa”.

La nazionalità è un altro argomento su cui si discute molto.

“Se devo essere egoista una volta sarebbe stato un problema per la Svizzera, adesso abbiamo una generazione di giovani che hanno 20 / 25 anni e quindi molti più marinai che all’epoca. La Coppa ha più bisogno di team che della regola della nazionalità e quindi dobbiamo trovare un equilibrio. Nessuno vuole tornare a una situazione come quella del 2010, così conflittuale. Però il protocollo fa sempre in modo che il defender abbia vantaggi e quando una delle squadre ha vantaggi c’è sempre una ragione per discuterne”.

 Cosa le è piaciuto meno di quello che è successo qui?

“Non correi ripetermi  ma la cosa che pesa di più sull’evento è il numero delle squadre. Si può cominciare a far discussioni su una cosa o l’’altra. Ma il numero è importante.

Cosa bisogna fare per richiamare più squadre?

“Purtroppo la Coppa continua a essere una cosa non proporzionata in termini di costo e resa per gli sponsor.  La Formula Uno costa molto di più ma rende molto di più e la relazione tra incassi e costi è più equilibrata. Quando mi guardo attorno trovo che chiunque sia il defender deve porsi questa domanda. Deve fare molta attenzione al relativo costo della squadra a confronto dell’incasso. A Valencia siamo arrivati a dare 10 milioni di euro a ETNZ per il secondo posto.  Eravamo comunque riusciti a rinnovare il sistema e a questo non siamo ancora tornati. Ci vogliono più squadre e per avere più squadre ci vogliono meno costi. Avevamo Cina e Sud Africa,  un gioco più aperto”.

 Si è rivisto con Larry Ellison?

“Non ho ricostruito un rapporto con Ellison. Come ho incontrato Russell Coutts incontrerei Larry. Oggi non ho più risentimento e ho solo esperienza. Il risentimento non è una buona cosa. Ho imparato certe cose, certamente ho fatto degli errori e so che li ho fatti. Ma questo è dietro di me. La vita è troppo corta”.

Tornerà alla Coppa America, ci sono delle condizioni per tornare?

“Quanto ho fatto la Coppa nel 2000 avevo varie ragioni per farla Oggi ce ne sono molte meno. La principale è che l’ho già vinta due volte e quindi sono meno accanito che certi altri. L’altra è che penso che ci sia troppa incertezza e probabilmente la Coppa ha un momento critico peggiore di altre volte. Forse quando Ellison ha iniziato la battaglia legale eravamo messi male, forse peggio. Ma questo può essere un momento simile. Adesso è difficile lanciare una sfida con l’incertezza che resta sulle barche da usare. E’ tutto molto difficile per una nuova squadra. Bisogna aspettare a vedere chi vince e cosa ci propongono. Speriamo che non ci facciano aspettare per sei mesi come  fatto in passato”.

Quanto può esser un budget sostenibile per squadra.

“Ho sentito diverse cifre, dai trenta milioni di euro per i francesi agli 80 milioni di pound per gli inglesi. Gli inglesi dicono che serve molto meno e i francesi dicono che con trenta milioni non è abbastanza. Dovremmo avere squadre che con 30 milioni ce la fanno a fare una buona partecipazione e con 50 possono vincere.  Finora non ho mosso nessuna pedina”.

p.s. L’intervista è stata realizzata assieme agli inviati della Gazzetta dello Sport

I kiwi vanno di più. Nessuno lo vuole dire per scaramanzia. Ma è così: la superiorità è evidente almeno con il vento che non ha superato i dodici nodi del primo week end di regate. La sfidante Emirates Team New Zealand è stata migliore del defender Oracle in tutti i settori: ottime le quattro partenze di Peter Burling, che si temeva fosse a disagio con l’esperto avversario James Spithill, ottima la velocità, a volte tremendamente superiore a quella degli americani. I neozelandesi hanno prima rimontato il punto di svantaggio con cui partivano per merito della classifica dei Round Robin, e poi si sono elegantemente portati sul 3 a zero. Il campo americano è visibilmente abbattuto  ma c’è una grande prudenza da parte kiwi: nel 2013 gli americani sono stati in grado di esprimere una furiosa rimonta che non ha lasciato scampo. A Coppa praticamente vinta: giova ricordare che i neozelandesi erano in testa nella regata che poteva essere decisiva ma che è finita fuori tempo massimo e da li sono cominciati i loro guai. E James Spithill ha promesso “proveremo di tutto, ci siamo già riusciti una volta. Cinque giorni di lavoro sono tanti”. Vero, si ricomincia a regatare sabato prossimo e in tutto questo tempo Oracle può trovare delle soluzioni come ha fatto a San Francisco senza questa pausa.  Tuttavia non sempre riesce la manovra. E a quanto pare i neozelandesi sono riusciti a esprimere miglioramenti di velocità anche in questi giorni, sembra perfino che abbiano dosato l’acceleratore dell’innovazione per non mostrare troppo di quello che avevano in casa. Insomma hanno tenuto nascosto qualche “weapon” per il gran finale.
SI sprecano i complimenti per il timoniere Peter Burling. Freddo in conferenza stampa, freddo in regata e ben coordinato con lo skipper e tattico Glen Ashby. Lo speaker di una delle televisioni americane ed ex velista Ken Read prima della partenza della prima regata, vedendolo troppo sereno ha commentato “qualcuno spieghi a questo ragazzo che sta per cominciare la Coppa America”. E l’ha cominciata senza soggezioni, con una sessantina di pulsazioni. Qualche errore il primo giorno, soprattutto una mancata intesa con il tattico e skipper Glen Ashby che deve tenere per alcuni secondi il timone nelle manovre. Più puliti domenica, in cui i kiwi hanno somministrato lezioni ancora migliori agli americani che pure avevano cambiato degli assetti  nel tentativo di avvicinarsi alla velocità dei neozelandesi.  La barca neozelandese rispetto a quelle degli avversari ha due differenze fondamentali, la forma delle derive che anche in televisione è molto visibile, quella kiwi ha una forma spezzata e più lunga che è quello che le da vantaggio con poco vento, e il modo di regolare l’ala. Questo nella frenesia delle immagini televisive è più difficile da vedere ma sembra essere una delle chiavi del successo dei neozelandesi che hanno anche un sistema di regolazione assistito che non prevede il verricello che ancora hanno gli avversari. Tutto più rapido e semiautomatico. Questa è sicuramente un argomento su cui gli americani lavoreranno intensamente osservando i video per comprendere le differenze.

Il prossimo week end sarà quello del tutto esaurito: le Bermude confermano la loro attitudine di paese dei balocchi,  infatti sono arrivati i megayacht che hanno riempito le banchine, le rade sono piene di barche di tutti i tipi. Il pubblico si dispone attorno al campo di regata dove in realtà dalla barca si vede più o meno quello che si vede d terra, ma certo non si fa sfoggio dei propri gioielli. Nei prossimi giorni si gioca quello che è iniziato già da tempo: il toto Coppa. Cioè la scommessa su come sarà la prossima edizione. Tanti tifano ETNZ nella speranza che riporti alla vecchia leggenda il regolamento soprattutto al monoscafo di grandi dimensioni, alle regole che impongono che ci sia una gran parte dell’equipaggio della nazionalità di bandiera del club sfidante. Insomma, che ci sia una sorta di restaurazione dopo quello che ha imposto Russell Coutts nella convinzione che abbia impoverito lo spettacolo più che arricchirlo. Sarà così? Intanto uno degli sponsor di ETNZ, Toyota, ha pubblicato una pagina sul quotidiano locale “se ci sostenete vi lasciamo la barca”. Come dire: se vinciamo non ci serve più e resta qui.

Inizia la edizione numero 35 della America’s Cup. Si corre alle Bermuda, isole in mezzo all’Atlantico che oltre alle braghe corte da indossare con i calzini lunghi hanno ispirato a William Shakespeare il tema de La Tempesta: nei bar di Londra raccontano del naufragio della Sea Venture nel 1609 sui banchi di corallo a nord dell’isola e lui elabora.  La battaglia navale che si annuncia molto intensa è tra gli attori nella Coppa America numero 34 di San Francisco, è una re-match con qualche cambiamento: la misura delle barche, un timoniere. Il defender è Oracle, il sindacato del ricchissimo Larry Ellison condotto da Russell Coutts (uomo che ha vinto di più in Coppa)  che ha affidato l’equipaggio a James Spithill. Il challenger è Emirates Team New Zealand, che partecipa al match come defender o challenger fin dal 1995 con la sola interruzione del 2010. Il team è protetto da Matteo De Nora, di origini italiane, condotto da Grand Dalton un coriaceo organizzatore. Il timone è affidato a Peter Burling.  Si corre solo nei week end e questo lascia un buco enorme nel pubblico, ma apre la possibilità ai team di “ricostruire” le barche. E’ un vero vantaggio? Mica tanto, perché lo è per entrambi. Si corre al meglio di quindici regate, quindi la Coppa va al primo che vince sette regate. Sono tante. Il programma potrebbe finire domenica prossima o lunedì, se tutto fila come da programma. Per il primo week end  previsto vento debole che dovrebbe favorire i neozelandesi.

Nel 2010 a Valencia James Spithill a 31 anni è stato il più giovane timoniere a vincere la Coppa America, governava il mostruoso trimarano BMW Oracle e ha battuto Alinghi. In questi giorni Peter Burling può battere il suo record di gioventù: ha suoi 26 anni un sorriso neozelandese, la sua mascella forte ha una vaga somiglianza con quello sir Edmund Percival Hillary che a 34 anni ha scalato per l’Everest meritando di finire ritratto sulle banconote da 5 dollari neozelandesi. A Peter potrebbe davvero capitare un destino simile: la Nuova Zelanda vuole e ha bisogno della Coppa, non è solo una questione sportiva è per dare impulso a industria e turismo. Si sono già incontrati nelle fasi preliminari e Oracle ha vinto il confronto, tuttavia non è determinante: tutti i team sono cresciuti in questa fase di allenamento.

Nel mondo e nel villaggio della Coppa quasi tutti tifano kiwi, alle Bermuda sono gli unici tifosi, come sempre arrivati numerosi e pieni di bandiere, kiwi di pezza e infradito. I kiwi piacciono, sarà il peso delle sconfitte o più verosimilmente quel filo sottile che unisce il pubblico dagli atleti autentici.
Intendiamoci, non che l’equipaggio di Oracle non lo sia. Sarebbe un’offesa, chi non ricorda Spithill poco più che adolescente che in partenza a Auckland ingaggiava lotte feroci  nella Coppa del 2000. James Spithill e Tom Slingsby  sono marinai raffinati, e sulla carta forse pure più forti di Emirates almeno nel match race e infatti quello che si teme di più è l’aggressività di Spithill in partenza, dove sanno tutti che non lo batte nessuno.   Quello che non piace è la sottile arroganza del team americano, che ha sempre strappato il risultato con una certa violenza e poi per aver imposto al mondo conservatore della vela i catamarani volanti e un loro programma di regate già più o meno pronto per la prossima edizione, da correre nel 2019 con le stesse barche.

Quattro anni gli americani fa partivano con due punti di svantaggio, meritati per aver “taroccato” gli AC 45, le barche con cui correvano il circuito preliminare. Adesso ne hanno uno di vantaggio per aver vinto le fasi preliminari dove regatavano assieme ai challenger. Un punto  che può essere determinante come riconosciuto da tutti. Attenzione, nel gioco dei punteggi è un meno uno per New Zealand, significa che Oracle deve comunque vincere sette regate e i kiwi otto.

Non solo quello, hanno un vantaggio un poco più complesso da spiegare. I neozelandesi in qualità di sfidanti hanno avuto la possibilità di costruire una sola barca. Ai defender invece due che in realtà non hanno in realtà costruito. Ma… Softbank Team Japan ha usato una piattaforma  (di dice così del catamarano) costruita dal cantiere di Coutts ed Ellison in Nuova Zelanda praticamente identica a Oracle e per i requisiti di nazionalità bastano poco più di due metri di prua costruita nel paese di bandiera per far diventare magicamente tutta la barca di quella nazionalità. Insomma, cambiando le due prue rosse la barca giapponese diventa americana. Potrebbe servire per una capriola, per un guasto. Questo potrebbe consentire agli americani di essere un poco più aggressivi, meno conservativi soprattutto in partenza.