Luna Rossa, la nona barca con questo nome, è scesa in acqua ieri a Cagliari. E’ la barca del team Prada Pirelli, primo dei due scafi previsti per la sesta sfida per la Coppa America lanciata da Patrizio Bertelli attraverso il Circolo Vela Sicilia di Palermo. Luna Rossa sorprende per la sua forma “ci copieranno subito – è la previsione di Patrizio Bertelli – perchè noi abbiamo il boma dentro la barca e non sospeso. E poi per la forma della carena con lo skeg che corre per tutta la lunghezza, fatta per rimbalzare in acqua in skimming”. Luna Rossa ha un perfetto punto di nero, pare che il ritardo a metterla in acqua sia dovuto anche a un problema di colore oltre che a qualche modifica strutturale. Quella di Cagliari è stata una grande giornata che ha mostrato il grande affetto per il team guidato da Max Sirena, al punto che è arrivato anche il presidente del Consiglio Giuseppe Conte a Cagliari per un incontro in Prefettura: “Luna Rossa è una eccellenza italiana – ha detto – ci sono almeno sessanta aziende che producono alta tecnologia a bordo. E’ la nostra sfida al mondo”, riesce a dirlo mentre una gran parte dei giornalisti gli chiedeva della manovra e dell’Iva: “ragazzi fate i bravi, ho già fatto tutte queste dichiarazioni al momento opportuno, sono qui per Luna Rossa”.
Non solo lui, ovviamente,  perchè il team ha voluto vicino tutti gli amici di sempre, seicento persone, a partire dai “boat builder” del cantiere Persico di Bergamo che, fin qui, hanno avuto un ruolo fondamentale. “Mi sono commosso – ha detto Max Sirena – di Coppe ne ho vinte due, ma questa è la mia grande occasione da leader, quella che più di altre voglio vincere”.  Sirena ha vinto nel 2010 come responsabile della’ala di BMW Oracle e nel 2017 con Emirates Team New Zealand.  Iniziano subito le prove di volo, nei primi giorni senza albero e trainata dai tender, poi poi con la vela. Toccherà ai velisti, dove spiccano i timonieri Francesco “Checco” Bruni e James Spithill, americano vincitore due volte con Larry Ellison e i suoi Oracle. A quanto pare per la conformazione della barca i timonieri saranno due, loro due, e non passeranno mai da un bordo all’altro. Anche i tailer saranno uno per lato.
La squadra è forte, ben finanziata con oltre 100 milioni di euro che arrivano da Prada, Pirelli, Panerai, Woolmark, ma dovrà vedersela con avversari  non meno dotati. Il più aggressivo sembra essere lo squadrone inglese guidato dal super campione sir Ben Ainslie (quattro ori olimpici e un argento al collo) che ha preso seriamente l’impegno con il supporto della famiglia reale ma soprattutto dello sponsor Ineos (industrie chimiche) di riportare il trofeo più antico dello sport nelle austere e inviolabili sale del Royal Yacht Squadron, la dove la Coppa è nata nel 1851 ed è rimasta per poche ore, il tempo per la goletta America di fare il giro dell’isola di Wight. Ineos lavora a Southampton, nei prossimi giorni varerà la sua barca. Altri due sfidanti sono americani: Stars & Stripes dalla California e American Magic da New York: gli americani pare non abbiano denaro sufficiente a contrastare i due squadroni europei. Il team di New York, che ha per skipper Terry Hutchinsons, è finanziato da tre ricconi che non hanno voluto sponsor, ma hanno dovuto attivare una sottoscrizione di denaro trai soci del New York Yacht Club, perché si spenderà più dei 90 milioni di dollari previsti. Hanno già varato la prima barca, molto diversa sia da Luna Rossa che dalla neozelandese Te Auhi (delfino) che hanno qualche somiglianza. Ha il fondo piatto che è un ostacolo quanto tocca l’acqua e deve rialzarzi in volo.
Il defender è Emirates Team New Zealand, dove il finanziere Matteo de Nora ha un ruolo di leader dei finanziatori e la gestione è affidata al coriaceo Grant Dalton, il timone al golden boy Peter Burling il più grande giovane talento disponibile. La Coppa America sarà nell’estate australe del 2020 – 2021 (il nostro inverno) a Auckland “vogliamo fare un grande evento – dice de Nora – che racconti la vela a tutto il mondo sportivo”. La barca kiwi ha già navigato, per alcuni giorni al traino dei tender in linea retta, poi con le vele: sempre in linea retta, l’equipaggio aveva la proibizione dai designer a tentare virate o strambate. Un collaudo graduale, che pare necessario con questi oggetti così complicati.

 

Cinquanta firme possono anche sembrare poche, tuttavia sono solo le prima e il loro peso specifico è cospicuo. A Milano presso il teatro Parenti i principali yacht club, circoli velici, la Federazione Italiana Vela, le industrie più influenti hanno firmato la Charta Smeralda, un documento che descrive un codice etico voluto dallo Yacht Club Costa Smeralda per la presentazione pubblica di One Ocean Foundation.

Per il grande club non solo attività, regate, e grande mondanità ma una presa di coscienza e una chiamata alle armi per chi condivide il destino. Dopo il Forum organizzato quattro mesi fa, dodici ore di lavori intensi sul malessere del mare,  adesso il club vuole che la sua attività sia corale e continua. Il primo firmatario, per mano del presidente Nico Reggio, è stato lo Yacht Club Italiano che condivide con quello sardo il piacere e la responsabilità di organizzare in Italia le regate più importanti. Ha firmato la Società Velica di Barcola e Grignano che organizza la Barcolana, tra gli altri anche il Circolo Velico Ravennate rappresentato da Matteo Plazzi uno dei pochissimi italiani ad aver vinto la Coppa America a bordo.
Quello di sua altezza Zahra Aga Khan presidente del club e del Commodoro Riccardo Bonadeo  è un duetto che diventa un coro di tutti “il mare ci ha dato tanto divertimento, passione, libertà e adesso dobbiamo restituire qualcosa.  Il mare ha bisogno di noi”. I grandi imprenditori con interessi nella nautica come Luca Bassani, Pigi Loro Piana, Leonardo Ferragamo non si sono sottratti. Così come il WWF con la presidente Donatella Bianchi o Prada e Luna Rossa con Patrizio Bertelli e lo skipper Max Sirena.
I dati presentati sull’inquinamento da materie plastiche sono impressionanti. Solo in Mediterraneo, sono presenti 1,2 milioni di microplastiche (frammenti inferiori a 5mm) per chilometro quadrato che risulta essere una delle concentrazioni più alte al mondo. A livello globale si stima che gli oceani siano inquinati da circa 300 mila tonnellate di plastica, di cui la maggior parte galleggia sulla superficie in oltre 5000 miliardi di pezzi. Nemmeno gli abissi oceanici, come la Fossa delle Marianne, la più profonda depressione oceanica conosciuta al mondo, sono immuni: nel 100% dei campioni di specie animali prelevate in queste acque e analizzate dai ricercatori sono state trovate tracce di plastica. Una situazione che non sembra poter migliorare tanto in fretta.

La principessa ha aggiunto: “Essere già a questo punto, a soli pochi mesi dal Forum, è un fatto straordinario. Insieme a tutte le realtà che a diverso titolo abbracciano la Fondazione stiamo lavorando in un’ottica There Is Only One Ocean. La velocità con cui stiamo portando avanti questo progetto è un segnale da cogliere, guardando  alla prossima edizione del Forum, a cui vogliamo arrivare con grandi risultati. Il segnale è che il Mondo vuole questa rivoluzione; il Mondo vuole salvare il mare, e noi vogliamo provare a fare la nostra parte”.

La giornata è proseguita con la presentazione dell’attività dello Yacht Club, una stagione molto intensa come al solito. Quest’anno eventi clou come il mondiale Maxi e la Swan Cup.

 

E’ stato Grant “Granti” Dalton a presentare il Protocollo che governerà la prossima Coppa America. Una cerimonia frugale, in perfetto stile kiwi: senza fronzoli, senza fanfare. Grant è l’uomo che ha condotto alla vittoria il team neozelandese, che ha risollevato la squadra dalla sconfitta di San Francisco e che ha prodotto la miglior tecnologia e velocità per vincere alle Bermuda. A dire il vero tra gli attori della vittoria è da considerare l’italo americano Matteo De Nora, che per molti anni ha sostenuto  il team.  Le intenzioni di chi gestirà la “nuova Coppa”, vale a dire il defender Royal New Zealand Yacht Squadron rappresentato da Emirates Team New Zealand e il Challenger of Record Circolo della Vela Sicilia rappresentato da Luna Rossa che hanno raggiunto gli accordi in questi mesi  è quella che potremmo definire di una restaurazione organica. Ritornano molti vecchi voleri del Deed of Gift: temi legati alla nazionalità degli uomini del team e alla separazione delle carriere tra sfidanti e defender che organizzeranno regate separate. Torna come barca il monoscafo, sarà lungo 75 piedi (circa 23 metri) e probabilmente sarà full foiling senza zavorra: un nuovo mostro di tecnologia e velocità, con componenti one design che tutti i team potranno utilizzare per ridurre i costi. Dietro la definizione della regola di stazza, che sarà completa solo in marzo 2018, c’è il progettista francese Guillaume Verdier, che faceva parte del team di Emirates e ha una forte esperienza di monoscafi foiling che partecipano alle regate oceaniche. Ogni team potrà costruire due barche che vedremo in acqua dal 2019 in una serie di regate che precederanno il match. Il clou è nell’estate australe tra il 2020 e il 2021: prima la Christmas Cup e poi in gennaio febbraio le regate di selezione sfidanti.  Udite udite: il Protocollo prevede che se ci saranno impedimenti a regatare in Nuova Zelanda questo potrà avvenire in Italia.
Dalton ha annunciato che lo sponsor principale delle regate di selezione sarà Prada, nasce così la Prada Cup: un passaggio anche questo importante, perché dopo molti anni di Louis Vuitton e gruppo LVMH le regate di selezione cambiano partner (non scriviamo sponsor, sarebbe riduttivo). Le regate di selezione degli sfidanti sono nate negli anni ottanta per volere del barone Bich e del suo timoniere Bruno Trouble, che poi ne è diventato l’anima e che ora è consulente per i neozelandesi.  Defender e Challenger stanno cercando giustamente un mondo per dire cose nuove con il vestito vecchio, la innovazione migliore è quella che forse potrebbe passare sotto silenzio ed è  nella condivisione dei contenuti: la conferenza stampa di presentazione è avvenuta su Facebook e Patrizio Bertelli ha promesso diritti liberi, che significa che i circa due miliardi di iscritti a Facebook (come riferimento di persone attive sul Web) potranno essere virtuali spettatori di un canale streaming. Vogliamo i giovani, hanno detto, e fanno bene. La vela non può essere, per citare un film “uno sport per vecchi”. Cambieranno forse i parametri della produzione tv, tuttavia è un passaggio decisivo che potrebbe anche trascinare in questo destino anche altri sport. La Coppa America, da quando gli americani hanno battuto gli inglesi un secolo e mezzo fa, segna la rotta. Luna Rossa avrà la sua base a Cagliari, confermato lo skipper Max Sirena, nel board di gestione assieme a Patrizio Bertelli, ritorna Marco Piccinini. Facile prevedere la conferma di molti velisti che hanno fatto parte delle diverse sfide della Luna. Con questa sfida, va scritto, Patrizio Bertelli, che una volta si è ritirato, con sei volte supera nella storia sir Thomas Lipton che è arrivato a cinque.

Per lanciare la sfida ci sarà tempo dal prossimo gennaio fino all’estate del 2018. Ora la domanda che sta a cuore ai potenziali team (e in Italia ci sono almeno altri tre sindacati che sognano di lanciare la sfida) il budget previsto… considerando che bisogna costruire due barche, alla prima edizione con un nuovo regolamento difficile essere competitivi con una sola, che l’equipaggio sarà di dieci dodici persone, che il team sarà di 80/ 100 persone almeno, che ci sono almeno sei eventi di avvicinamento alla Coppa si può ipotizzare una cifra  di almeno 70 milioni di euro per partecipare. Forza, iniziamo la colletta.

I kiwi ci sono riusciti. Riportano a casa il trofeo che, conquistato una prima volta nel 1995 era partito per Valencia nel 2003 e poi per San Francisco nel 2010. Emirates Team New Zealand conquista la Coppa America per la seconda volta con orgoglio nazionale e con una preparazione meticolosa. In nuova Zelanda la vela è sport nazionale, un  vittoria sarà celebrata con il massimo delle grandi feste e celebrazioni. Il Viaduct Basin di Auckland, Queen Street saranno il percorso di un bagno di folla per il Ceo  Grant Dalton, il timoniere Peter Burling, lo skipper Glen Ashby e l’equipaggio tutto. Un insieme giovane e ricco e pieno di talenti, che oltre alla tecnica raffinata ha avuto il merito di saper mettere a punto la barca in maniera meravigliosa. Il punteggio della vittoria lascia pochi dubbi sulla supremazia del team kiwi, Oracle a quattro anni di distanza dal furioso “come back” di San Francisco non ha saputo esprimere lo stesso potenziale di crescita. Anzi, il timoniere James Spithill è sembrato appannato nei confronti di Burling. Si pensava che il giovane kiwi avesse delle soggezioni nei confronti del grande campione vincitore due volte del Trofeo. Invece no. Burling ha, in termini velici, “portato a spasso” l’avversario in più di una partenza.  Il punteggio sa molto di rivincita, anzi quasi di punizione otto regate vinte contro una, punteggio di 7 a uno. La regata finisce nelle lascime americane, Ellison sconcertato da quanto successo.

Quali sono le chiavi della vittoria? Sul piano umano l’incontro con la freddezza di Peter Burling, fresco vincitore di una medaglia d’oro alle Olimpiadi di Rio che ha effettivamente un carattere spavaldo, lontano dalle incertezze di Dean Barker che lo ha preceduto, e l’esperienza di Glen Ashby, scelto anni fa per la sua esperienza nei multiscafi. Sul piano tecnico le innovazioni sono molte e danno la misura di come i designer, tra cui qualche italiano, hanno interpretato al meglio il regolamento. Intanto la produzione di energia a bordo (sotto forma di olio idraulico in pressione) ottenuto con quattro ciclisti e non con quattro “grinder”. Con le gambe si riesce a eprimere uno sforzo più continuativo oltre che percentualmente più potente. La mancanza di energia spegne la barca, è quasi sempre il motivo dell’interruzione del foiling. New Zealand ha imbarcato il ciclista professionista Simon van Velthooven per questo ruolo.  Anche altrove hanno cercato atleti specializzati: su Artemis un canoista per il ruolo di grinder.
Lo skipper e tattico Glen Ashby ha ideato un sistema di controllo della randa che non utilizza la tradizionale scotta, rimasta come memoria  dell’antico su tutte le altre barche,  ma un sistema idraulico che gli consente soprattutto di regolare il twist, parola difficile da tradurre più che l’angolo di scotta. Questo cambia le condizioni quando bisogna controllare lo sbandamento della barca con il variare del vento. E’ un po’ quello che sulle barche tradizionali è la funzione del vang. Altro grande vantaggio dei kiwi è stata la possibilità di poter utilizzare quattro configurazioni per i foil e non solo due come gli altri team. Il regolamento consente la costruzione di quattro foil (due coppie) e la variazione del 30% della loro superficie. I kiwi hanno realizzato un sistema smontabile delle “tip” (la parte terminale del foil) cui gli altri team hanno rinunciato, e questo rende più flessibile il sistema e il tuning della barca a seconda del vento previsto, operazione fondamentale per le migliori prestazioni. Il tuning dipende dalla intensità del vento:  con più vento pinne corte, perché con maggiore velocità il sostentamento è migliore, con poco vento pinne lunghe per restare in volo. La questione del volo è poi stata affrontata in maniera radicale. Volare significa infatti muoversi in un mondo a tre dimensioni e non più a due. Sinistra destra, alto basso. Per imparare alla perfezione i kiwi si sono rivolti a un mago dei droni, un fotografo che è stato in grado di far volare il suo drone davanti alle barche a cinquanta centimetri dall’acqua. Con il suo aiuto i tecnici hanno sincronizzato i dati dati delle telecamere di bordo con le prestazioni per riuscire a indagare meglio ogni evento e da questo imparare la conduzione. Un sintomo in più di come queste barche siano entrate nella generazione “videogioco” e come i timonieri nativi abbiano riflessi e tecniche per poterle condurre. Per carità: ci vuole anche tutto il talento velico per farlo.

La Coppa nella sua valigia Louis Vuitton vola verso la Nuova Zelanda per ritrovare il suo posto nella sala al primo piano del Royal New Zealand Yacht Squadron. Non ci sono solo risvolti sportivi ma anche economici per il piccolo stato australe. L’industria nautica vale un miliardo di euro ed è considerata tra le prima del paese, che ha una forte vocazione agricola. Nel 2003 perderla è stato un duro colpo, che era stato sottovalutato perfino dal Governo. Adesso i kiwi faranno di tutto per tenerla a lungo nella City of Sails.

Entra nel vivo il Salone Nautico, dopo i due giorni di avvio più timidi della settimana, in cui si è misurata la temperatura al mercato che sembra risorgere con crescita a doppia cifra si aspetta il pubblico del week end. E si discute: quale pubblico per quale Salone? La domanda cui rispondere in realtà è: “è il mercato a fare il Salone o il Salone a fare il mercato?”. Molti si sono ritirati, il primo il cantiere Sessa alcuni anni fa dando il via a una emorragia importante alzando la bandiera de “il mercato italiano è morto”. E’ bene affermare che sono proprio i cantieri italiani che hanno fatto grande il Festival de la Plaisance ora inutilmente chiamato Cannes Yachting Festival. Senza la “banchina italiana” il salone francese sarebbe nullo, basterebbe tornare tutti a Genova per svuotarlo e gettare nella disperazione gli arroganti organizzatori.

In realtà se il Salone di Genova non avesse resistito alla crisi tentando di conservare il legame tra clienti e cantieri cosa ne sarebbe stato del mercato domestico che adesso finalmente si riprende? L’equazione investimento (partecipazione al Salone) contro contratti e vendite, a breve termine è stato un sacrificio pesante, chi è rimasto fedele ha speso con ritorni modesti. Ma adesso il Salone continua ad esistere e con quello il mercato italiano delle barche da diporto. Come dice Carla Demaria presidente di UCINA: “tra mercato e Salone c’è una bella sinergia”. Vero, non si può prendere il quesito agli estremi.

Non dimentichiamo che dopo la perdita del Salone dell’Auto (Torino, Bologna) abbiamo finito per perdere anche la relativa industria di cui restano solo le unità produttive. Sul Salone Nautico restano latenti pesanti errori di prospettiva da correggere. Nell’aria ci sono visioni che negli ultimi anni hanno finito per diminuire il valore della manifestazione ligure a favore di altre. Il più temibile dei pericoli per il prossimo futuro? Uscire dalla formula “one ticket one show” che è la chiave del successo di Dusseldorf prima che di Cannes e che è stato il successo di Genova anni 2000, quando si è raggiunto il limite di 320 mila spettatori per tutti i settori merceologici, un primato mondiale. Tanti piccoli saloni non fanno un grande salone e non fanno vetrina alla nostra industria, che resta la prima del mondo.

Miami, considerato modello di salone diffuso, è un salone invisitabile, in cui le distanze tra le diverse sedi sono trincee tra i diversi mercati. E la speciale sezione “vip” è stato un esercizio di stile chiuso nel deserto di visitatori e la mancanza di veri Vip.

Ora, il vero pericolo risultato anche della grande campagna di denigrazione degli ultimi anni contro il Salone Nautico si chiama Blu Print, un progetto che se avrà davvero seguito limita pesantemente il ritorno del salone a dimensioni “mondiali”, dove il Salone è considerato un piccolo ospite e non una risorsa centrale per la città. Infatti l’area è descritta come “ex Fiera del Mare”. E’ singolare che un architetto dell’esperienza di Piano abbia sorvolato sulle esigenze operative del Salone, limitandosi alla cosmetica della città. Del resto il tombamento previsto di fronte allo Yacht Club Italiano è un’altra follia senza concreta prospettiva economica.

Mare: una responsabilità che Genova sa prendersi solo in parte, perché non c’è solo la nautica, il Mediterraneo ha bisogno di un coordinamento attorno a molti argomenti.

E’ davvero difficile pensare, con tutte le critiche che si possono muovere (ogni cosa è perfettibile), che sia logico rinunciare alle strutture costruite a Genova per il Nautico, tuttora nel PGT con questa destinazione d’uso, fatte con investimenti importanti. Cambiare sede: dove? Dove esiste un avviamento di 56 anni? Una “tecnologia” per quanto carica di mugugno che fa marciare le cose? Sarebbe anche sciocco, il solito modo di buttare soldi all’aria, demolire per rifare.

La Coppa America numero 34 è finalmente finita. Hanno vinto gli americani, ha vinto Oracle che ha fatto il miracolo di rimontare un punteggio impossibile per concludere 9 a 8, risultato inaspettato solo qualche giorno fa. Ha vinto ieri notte l’ultima combattuta regata, il distacco e la cronaca non hanno ormai nessuna importanza. Soprattutto, vale dire che sono stati più veloci di bolina sempre e comunque, che si può usare la parola incontenibili. E’ finita nel modo più crudele per Dean Barker e compagni di Emirates Team New Zealand, che hanno sentito a lungo odor di vittoria, anzi era praticamente in tasca. Larry Ellison, il miliardario terzo uomo più ricco del mondo (fa sempre una certa impressione pensarlo) gongola sul podio, alza l’antico trofeo al cielo,  pensa di aver speso bene i suoi 200 milioni di dollari. Ancora una volta ha dimostrato che i soldi contano, perché sono stati il carburante per i grandi talenti che ha messo assieme. La vittoria kiwi sarebbe stata più romantica, forse più giusta anche per come va il mondo. Ma la Coppa non fa sconti.
Quel che è successo sul campo di San Francisco ha qualcosa di magico, di mai visto prima in 162 anni di storia della Coppa che da oggi abbandona l’era antica. La capacità di Oracle di rinnovare il suo team, le prestazioni della barca sono state una dimostrazione di abilità, offuscato da qualche ombra per l’amaro lasciato in bocca dalle modifiche non legali agli AC 45 per cui sono stati sanzionati. Al momento non è il caso di perdersi nella dietrologia sulla legalità della barca, la loro velocità di bolina era qualcosa di veramente spettacolare. Così come purtroppo lo è stato il declino inarrestabile di New Zealand, che giorno per giorno ha subito la pressione di un equipaggio che ha sventolato la bandiera di Ben Ainslie usandolo come vela da tempesta, pilastro di tattica e furbizia. James Spithill è un pugile , un timoniere alla seconda vittoria della Coppa, ma Ben in qualche modo è l’eroe di questa impresa, perché salito a bordo in un ruolo non suo e subito ha saputo imporre un ritmo diverso alla barca e agli uomini. Ben che poteva anche essere nel campo avverso: nel 2005 era entrato come tattico titolare in New Zealand, ma preferì diventare il timoniere di barca due “perché devo imparare a timonare e il match race”. Ben che non era a bordo nel primo equipaggio, che ha sostituito il frigido John Kostecki, campione vero ma mai assoluto quanto lui. Due cognomi italiani a bordo di Oracle: Shannon Falcone, padre italiano passaporto di Antigua e Gillo Nobili, passaporto italiano e felicità alle stelle. La sconfitta di New Zealand è anche troppo punitiva e crudele: per una settimana hanno avuto in mano la Coppa, hanno sognato e preparato il futuro dell’evento, hanno interpretato il loro ruolo di nazionale della vela. I grandi sconfitti sono Grant Dalton e Dean Barker, che hanno cercato di seguire un altra coppia famosa sul viale del successo: Peter Blake e Russell Coutts, i trionfatori del 95. Ma contro di loro c’era un’America debole, divisa, senza il portafoglio aperto di Ellison. Per loro la sconfitta è molto difficile da digerire. Dean ha pianto come un bambino dopo il traguardo, Dalton non lo dice, ma piange dentro. Torneranno? Tornerà lo squadrone kiwi? Chissa. La corazzata invisibile Matteo De Nora ha riaffermato tutta la sue ammirazione e fiducia negli uomini. Ma non basta. Errori nel campo neozelandese? Chissà forse un giorno sapremo. Uno su tutti: quello di aver reso pubblica la scoperta del foiling (il modo di navigare sollevandosi sull’acqua) troppo presto, per Oracle è stato un inseguimento continuo ma vincente grazie alle risorse senza limiti. “Abbiamo combattuto ogni giorno – ha detto Spithill – e abbiamo vinto”. Facile, a parole.
Dean è sconsolato: “abbiamo vinto l’ultima partenza ci abbiamo sperato, ma non è stato possibile competere con la velocità di Oracle. Il loro miglioramento è stato incredibile. Siamo orgogliosi del nostro team, abbiamo cercato di riportare la Coppa in Nuova Zelanda, non ci siamo riusciti”. Per quante notti rivedrà il cronometro correre in quella regata interrotta a pochi minuti dall’arrivo, la regata della vittoria. Grant Dalton commenta: “la nazione è devastata”, giorni di scuole chiuse, record di audience, i primi effetti si sentono in Borsa, con il crollo delle azioni di Air New Zealand.   Differenze tecniche, si ci sono: ala diversa, Oracle ha la parte anteriore rigida mentre quella di Emirates Team New Zealand può twistare. Oracle ha scafi più piccoli, meno voluminosi. Oracle non ha la struttura con i tiranti che consente a Emirates una maggiore rigidità, ma in compenso le traverse tradizionali oppongono meno resistenza al vento e questa, assieme al controllo con controllo elettronico delle derive (manuale per i kiwi)  può essere stata la vera differenza, che consentiva una grande stabilità a Oracle in ogni situazione.
Il futuro è incerto: chi è il Challenger of Record? Ellison ha dichiarato che esiste ma lo comunicherà più avanti. La scelta, potrebbe essere tra il Royal Cornwall Yacht Club per un sindacato condotto da Ben Ainslie con sponsor JP Morgan oppure il Royal Swedish Yacht Club per Artemis di Torbjörn Törnqvist che ha già messo a contratto Iain Percy. Bertelli aveva le carte pronte per la sfida del Circolo Vela Sicilia al Royal New Zealand Yacht Squadron, ha sempre detto che non gli interessava farlo con gli americani. Però.. ci ha abituato alle sorprese. Quasi certamente resterà questa formula di regata, con dei catamarani foiling, lunghi 60 piedi.

Mentre nella baia infuria la lotta tra Oracle e New Zealand, mister Patrizio Bertelli (il mister sta li per dire che dire che da l’impronta alla squadra) si è fatto vedere spettatore sul gommone con Max Sirena e il gruppo storico di conduzione di Luna Rossa. Tra i ragazzi, non manca l’avvocato Luis Saenz Mariscal, che sta lavorando sodo in questo periodo. Dopo le proteste il documento in preparazione è il Protocollo. Se Emirates vince, Luna Rossa sarà Challenger of Record, con la responsabilità, per Patrizio Bertelli, Max Sirena, Matteo De Nora e Grant Dalton, per citare i vertici, di costruire un nuovo evento a misura di vela e non è roba da poco, dopo la controversa eredità di questa edizione: barche lanciate verso il futuro, così avanti da essere poco comprese. Un evento partito con alcune buone idee mai praticate.
Il circuito delle World Series  si è ridotto e il suo messaggio di diffusione ha perso grinta. Le notizie che sono trapelate finora parlano di una stretta sul controllo della nazionalità, i team dovrebbero avere una minima quota di stranieri, sicuramente non il timoniere. Questo è bene per le nazioni mature, non tanto per aprire a nuove realtà, come il far east che non ha una dotazione sufficiente di campioni locali. Esclusa la condivisione dei progetti. Se esiste un fondamentale accordo su gran parte delle questioni che riguardano l’evento per la decisione che tutti aspettano ci vorrà tempo. Sono pronti dei modelli, delle simulazioni, tra cui decidere. Lo abbiamo intervistato prima che ripartisse per Milano, destinazione sfilate.
Patrizio chi vince?
“Mi sorprenderei davvero che Oracle riuscisse a rimontare: deve vincere dieci regate, i kiwi cinque. A loro basta vincerne una al giorno delle due per andare avanti e non è impresa impossibile. I kiwi mi sembra siano sempre più veloci di bolina anche due nodi”.
La sua Luna Rossa le è piaciuta?
“Abbiamo centrato l’obiettivo che ci eravamo posti: arrivare alle finali con Emirates Team New Zealand. Abbiamo vinto le World Series con gli Ac 45 imparando a portare la barca molto in fretta. Nei primi eventi eravamo dietro tutti. Ci è mancata una corretta filosofia progettuale. Abbiamo ottenuto il massimo risultato per gli strumenti che avevamo, oltre che maggior tempo avremmo dovuto avere una seconda barca come gli altri”.
E quello che succede in mare?
“Non mi piace il percorso delle regate, la partenza al lasco va bene, ma ci vorrebbe subito la bolina come una volta, quando si aspettava il primo incrocio e c’era da fare tattica vera fino alla prima boa. Adesso chi è dietro alla prima boa deve aspettare la bolina. Insomma io sono contrarissimo alle partenza di poppa. Il percorso dovrebbe essere bolina , poppa, bolina, si può togliere anche il gancio. Per quanto riguarda le barche devo ammettere che da maggio in poi ”.
Le barche così contestate sono davvero da buttare?
“Ho sempre detto che catamarani erano difficili da vedere per il consumatore, per chi va in barca da anni sul monoscafo è difficile riconoscersi. Dopo l’incidente di maggio tempo in cui sembrava di aver preso davvero una strada sbagliata ogni giorno la mia opinione è cambiata, migliorata, mi sono avvicinato a questi mezzi. Il risultato positivo è raggiunto anche se resta la complessità di queste barche, che in una prossima edizione finirebbe per restringere la partecipazione a pochi team”.
E’ arrivato a cinque sfide, solo sir Thomas Lipton ha fatto tanto. Cos’è per lei la Coppa America?
“Ho iniziato un po’ per gioco, per la mia passione per la vela, per fare una sfida, anche per sostenere l’immagine dell’Italia. Sono arrivato a cinque sfide un po’ così, ogni volta con una motivazione diversa. Della Coppa America mi piace un insieme di cose: la costruzione del team, saper studiare un progetto vincente, anche gli aspetti legali”.
Dopo la quinta andrà avanti?
“Vincere la Coppa America è l’obiettivo finale della nostra quinta sfida. Per quanto mi riguarda la considero la mia ultima volta, direi che ho fatto abbastanza. Partiamo per vincere e portare la Coppa in Italia. Questo team è servito per gettare le basi del prossimo, volevamo partecipare per non perdere la continuità e fare esperienza con la velocità. Da questo punto di vista abbiamo un vantaggio sui team che si formeranno”.
C’è una autocritica da fare?
“In questi anni ci è mancato un design team con una scuola di pensiero, che poteva fare esperienza e crescere avere continuità, a volte abbiamo avuto un equipaggio molto forte ma ci è mancata la cultura del progetto”.
Tanti attacchi alla Coppa perchè c’è poco match race
“Se guardiamo al suo percorso la Coppa negli anni trenta era solo velocità, poi è stata match race. In questo momento deve essere l’uno e l’altro. Tra Oracle e New Zealand abbiamo visto belle regate anche con il match race”.
Qual’è la dote migliore di Max Sirena?
“La dote migliore di Max è che sa gestire i rapporti con i suoi collaboratori molto bene, ne capisce le logiche e li tratta in modo paritetico, tiene al gruppo.
Nel futuro della Coppa cosa vede? Cosa bisogna fare per aumentare la popolarità della vela?
“S’è capito che bisogna promuovere lo sviluppo tecnologico che resta una parte importante e fondamentale della Coppa. Poi le World Series hanno dimostrato che il pubblico può esserci e si appassiona. Bisognerà anche avere la modestia di fare una comunicazione meno elitaria, parlare a tutti in modo da spiegare che è un evento vero. Spero che non venga considerato solo l’avventura di qualche marinaio un po’ pazzo e ricco. Se saremo Challenger non vorremmo occuparci di questo aspetto che assorbe molte energie e distrae dalla vittoria. Lo stesso vale per il Defender, credo vada creato un organismo autonomo e molto dipenderà dallo sponsor della manifestazione”.
Una ultima domanda: i velisti sono stati rivestiti di casco salvagente, cintura, che impatto ha sul pubblico questo aspetto, che li fa sentire più vicini a dei combattenti e più lontani dai velisti
“ Con questo aspetto da combattenti attirano la fantasia, son vestiti così perché ci sono delle norme di sicurezza e d’altra parte succede anche in Formula Uno e in altri eventi. Il fatto che non si parla più del gentleman con la maglietta ma di uno sportivo con degli strumenti più aggressivi è interessante”.