La primavera nautica potrebbe esplodere, rapidamente e solidamente. Ma c’è ancora il freno a mano tirato forte, con la sicura. E ha un nome: redditometro. La paura di un rigurgito, di un incrudimento dei controlli che hanno per bersaglio dei proprietari delle barche sempre considerate “lussuose” paralizza il mercato dalla radice, ovvero a partire da quegli scambi a pochi soldi di imbarcazioni usate, che però muovono e smuovono tutto il settore. Dice Paolo Vitelli presidente di Azimut Benetti: “il rispetto delle leggi in materia fiscale è giusto e auspicabile, ma non devono essere persecutorie per i possessori di yacht rispetto a quelli di altri beni di lusso. Inoltre ritengo che l’associazione automatica armatore = evasore e l’utilizzo di azioni spettacolari come assalti in mare, articoli e interviste a senso unico, non fanno altro che generare un clima negative”. Nel mercato dell’usato ci sono in giro affari d’oro: oggetti naviganti che nel 2008 valevano 100 in liquidazione a 50, o anche meno. L’usato è un affare, qualcuno lo sa, ci prova. Anche il nuovo è un affare: i margini sono ridotti all’osso dalla necessità di fare cassa. Sintetizza bene Anton Francesco Albertoni presidente di Ucina con una battuta: “dobbiamo trovare il cliente… ma anche il modo per convincerlo”. La frase nasconde non solo un problema di prodotto, tutti i cantieri più bravi hanno affrontato la crisi proponendo novità, nuovi modelli, eco modelli e via dicendo, ma soprattutto un problema di motivazioni. Che vanno dalla paura dei controlli, denominatore comune per tutti, anche per chi vive di trasparenza perché comunque il fastidio e la perdita di tempo per un “accertamento” guastano sempre le vacanze, alle garanzie finanziarie. Se non ci si indirizza al “prêt à naviguer”, paga e porta via (molto difficile se non per i gommoni e le piccole unità) il patema di affidare per le barche più grandi dei denari di acconto che possono anche evaporare per molti motivi resta. Dunque la parola chiave di questa primavera è proprio questa: garanzia. Di comprare una novità che dura nel tempo, di affidare i propri soldi a qualcuno che li trasforma davvero nel sogno promesso dal volantino pubblicitario, di avere un servizio post vendita, di avere una qualità elevata. Insomma, un mercato con i piedi di piombo, attento. Poco volatile, di gente appassionata, un panorama in cui, ci dice Albertoni: “pur in una situazione difficile in cui non si può parlare di ripresa ci sono aziende che vanno anche più di prima, chi ha saputo essere concreto ha dei vantaggi. Dobbiamo fare i conti con un mercato che è totalmente diverso da quello di qualche anno fa. I pochi clienti si indirizzano dove c’è più barca. E poi è sempre più difficile capire se il prezzo è quello giusto, è difficile spiegare a chi vuole a tutti i costi fare un affare quanto vale il proprio prodotto. Ma i costi di produzione stanno realmente aumentando”. Risveglio delle barche piccole, i natanti sotto i dieci metri e tenuta delle barche di lusso, di cui siamo forti esportatori con un primato mondiale. In crisi il settore del medio, dai dieci ai venti metri, guarda caso un settore in cui l’usato è disponibile a cifre molto basse e dove la stretta nel concedere i leasing è stata più limitante. I grandi gruppi hanno capito prima di altri dove si andava. Paolo Vitelli afferma: “quello che ci ha differenziato da altri marchi sin dall’inizio della crisi è stata la nostra capacità di reagire velocemente ai cambiamenti e proseguire con i programmi stabiliti. Questo si è tradotto in un continuo rinnovamento della gamma, grazie al quale abbiamo potuto mantenere salda la leadership. Evoluzione, ricerca e innovazione sono le parole chiave alla base della nostra strategia. Purtroppo la crisi in Italia ha mietuto anche vittime illustri: ora più che mai, è chiaro che il mercato di questa nuova fase è riservato alle aziende solide, quelle che hanno costruito il loro successo su basi stabili”. Non distante l’idea di Norberto Ferretti, anima del gruppo omonimo: “Il Cliente è tornato ad essere quello di una volta, appassionato, competente e pertanto attento alla qualità e al comfort della navigazione e questo non può che renderci ancor più competitivi. Nostro obiettivo sarà continuare lavorare su prodotti sempre più innovativi e su servizi sempre più completi e customizzati rispetto alle esigenze dei nostri clienti. Entro la fine del 2013, il Gruppo prevede di presentare ben 42 nuove imbarcazioni, attualmente in fase di sviluppo. Per quanto riguarda questo anno nautico siamo cautamente ottimisti. Tutti i saloni a cui abbiamo partecipato ci hanno fornito un feed back positivo. Stiamo continuando a puntare sull’Est Europa, sul Far East, sul Middle East e sull’America Latina, oltre ai tradizionali mercati “domestici” dell’Europa allargata e del nord America. Da sette anni siamo presenti in Cina con un ufficio a Shanghai, e siamo appena rientrati dal Salone di Hainan, dove due nostre imbarcazioni che hanno riscosso un grande successo”. L’estero è il riferimento per chi produce barche di lusso. Dalla Cina arrivano segni di primato per il gruppo Azimut Benetti, anche lui impegnato da anni e attualmente leader di vendite: “L’Italia era e rimane la patria della nautica di lusso – aggiunge Paolo Vitelli – il nostro stile e le nostre barche continuano ad essere apprezzati e ricercati in tutto il mondo. La Cina sta diventando un vero mercato e le misure delle barche stanno crescendo rapidamente”. Fino ai 50 metri di un Perini Navi, attualmente in costruzione.

I megayacht sono una della cose che l’industria italiana sa fare meglio: con il 51% degli ordini mondiali è la prima oltre che per design e qualità anche per numeri. Una fama costruita negli ultimi venti anni, che si aggrappa a marchi storici e invenzioni intelligenti. La cantieristica italiana ha demolito la concorrenza olandese, tedesca, anche americana. Il mercato mondiale sta reggendo. Sono numeri però che stanno rapidamente “naufragando” sulle nostre coste per effetto dei numerosi “controlli spettacolo” inaugurati con il Force Blue di Flavio Briatore. Praticamente un atto di guerra, al di la di ogni considerazione sulle potenziali evasio/elusioni del brizzolato signore che raccoglie poche simpatie. Ma questo non toglie che la sua barca abbia uguali diritti e garanzie di quella degli altri.

Gli armatori stranieri sono stati vivamente sconsigliati dal frequentare le coste italiane, che avessero qualcosa da nascondere o meno. Quelli italiani hanno rapidamente varcato la frontiera verso coste più tolleranti. Forse è meglio mettere meglio a fuoco il fenomeno “megayacht” e cosa significhi davvero, in termini economici andare per mare. Un servizio estivo del TG1 ha fatto inesorabilmente di ogni erba un fascio, mettendo insieme, nelle capacità di spesa di chi le possiede vecchie bagnarole di dieci metri del valore di trentamila euro con spettacolari panfili da trenta milioni di euro con elicottero. Basta un rapido giro su Internet alla caccia di qualche offerta usata per rendersi conto che per le vacanze in barca può bastare la passione e abilità nel bricolage, invece un bravo pensionato che ha speso la sua onesta liquidazione in una barca sognata per tutta la vita può diventare in pochi minuti un temibile evasore, additato e soprattutto perseguitato. Ma va spiegato che poche decine di grandi barche che frequentano Porto Cervo non hanno molto a che vedere, in valore economico, con le migliaia di vecchi oggetti naviganti che occupano i nostri porti.

Intanto cosa si intende per “megayacht”? Per la legge sono considerate navi da diporto quelle oltre i ventiquattro metri. Valori? Al nuovo si comincia a parlare di cinque milioni di euro. I prezzi salgono molto rapidamente con le dimensioni. Per entrare in possesso di un trenta/trentacinque metri servono otto, dieci milioni. Quanti sono i megayacht e i ricchissimi che possono permetterseli? Alcune migliaia nel mondo, 4/5 mila. Alcune centinaia sono di armatori italiani. Le navi da diporto iscritte nei registri italiani non arrivano a cento, quelle di italiani iscritte nei registri stranieri sono alcune centinaia. Ogni anno questi numeri crescono di qualche decina di unità, negli ultimi due anni i numeri sono cresciuti poco. E’ relativamente facile arrivare, senza fare troppo spettacolo in mare ma con un buon lavoro di intelligence a terra, a bussare alla porta di questi armatori per capire da dove arrivano i loro soldi. Molto spesso non si iscrive la propria nave nei registri stranieri per eludere o evadere le tasse, ma per una più ragionevole gestione normativa in termini di equipaggio (i buoni comandanti italiani sono pochi e quello anglo sassone è un mercato che offre più esperienze specifiche e titoli più adeguati al mondo del lusso) e di costruzione e finanziamento della nave. Purtroppo per quanto in anni passati si sia fatto per spiegare a chi scrive le norme che una legge “competitiva” ovvero in grado di attrarre anche armatori stranieri nei nostri registri non si è mai riusciti ad arrivare a uno strumento efficace. Per costo, taglia e gestione dell’equipaggio e delle spese di gestione quasi tutte le navi fanno capo a una società. Sarebbe complesso far diversamente. Ogni nave costa all’anno in spese di gestione tra il 5 e il 10 % del suo valore: questo è molto spesso la ricchezza che si spalma sul territorio, ovvero che gli armatori spendono per manutenzioni e gestione. Quasi tutte le navi sono a disposizione per noleggio e sono presenti nei cataloghi dei più grandi broker, un poco come le seconde case di lusso. Del resto gli armatori che possono navigare sulle loro navi per quanto per più di qualche settimana sono pochi e sono pochissimi quelli che tengono la barca a disposizione esclusiva. Lawrence Joseph “Larry” Ellison, il recente vincitore della Coppa America e negli ultimi anni sempre tra i primi sei più ricchi del mondo, con un patrimonio personale stimato in 28 miliardi di dollari possiede il Rising Sun, una nave di 138 metri: è una briciola per le sue capacità di spesa e ha voluta una più piccola e maneggevole perché si è reso conto che non era vacanza navigare su una isola che non può entrare in nessun porto dove scendere a cena tra i turisti. Ma questo arrogante e geniale signore di successo, che non dimentica di erogare in donazioni un valore simile a quello della sua barca ogni anno, non può essere la misura per valutare decine di poveri naviganti.

Il 21 giugno la nave che tutti considerano essere di Flavio Briatore ha lasciato gli ormeggi e ha iniziato di nuovo a navigare. Dopo il sequestro infatti sonno arrivati alcuni clienti “veri” per le settimane del charter estivo procurati da Fraser Yacht, uno dei più grossi operatori mondiali del settore, che ha sempre avuto in catalogo la barca. C’è chi scrive di una media di quattordici settimane di noleggio all’anno. C’è chi ha scritto che per questo anno erano già previste sei settimane.

Il Force Blue potrà navigare in Mediterraneo ed è stato “rilasciato su cauzione” un deposito di 5 milioni di euro, più o meno quanto viene contestato come evasione a Briatore. Ma questo è un primo concreto passo per dimostrare che  il charter esisteva davvero nella vita della nave. Adesso bisognerà capire cosa farà Briatore: lo terrà per sempre all’estero considerando il deposito come “riscatto” (non poco, un terzo del valore di tutto, perfino difficile pensare che abbia evaso tanto con la sola barca) o rientrerà in Italia?

Pochi hanno scritto cosà è stata davvero l’azione di sequestro della barca di  Flavio Briatore, si tratta in realtà di una “cattura” un “internamento” o meglio un atto di guerra con cui l”Italia ha sostanzialmente dichiarato guerra alle isole Cayman e ovviamente alla nautica da diporto e ai megayacht. Il primo risultato concreto del sequestro (confisca?) è che tutti gli avvocati e i commercialisti che hanno clienti importanti hanno caldamente consigliato ai loro assistiti di girare alla larga dalle acque territoriali italiane e di non correre rischi. Spannometricamente il danno diretto per il turismo nautico della prossima stagione può essere di qualche centinaio di milioni di euro. Non molto, non poco. Certo molto di più di quello che sembra essere il valore della nave di Briatore. E sarà un danno ripetibile, come le ricette: via le barche dall’Italia da qui ai prossimi cinque, dieci anni. Quelle degli italiani, quelle degli stranieri. Mentre si tentava faticosamente di costruire l’immagine di una Italia navigabile le lancette dell’orologio tornano indietro di qualche decennio. Si torna al disastro Goria, il redditometro anti inflazione che era solo una bella scusa per chiedere alle fasce sociali più deboli più sacrifici. Sarebbe interessante sapere quale comportamento avrebbe tenuto la Finanza se invece della bandiera delle Cayman il Force Blue avesse issato quella inglese, come fanno molti megayacht. Intendiamoci: Briatore non è simpatico, tuttavia sembra avere delle buone ragioni in questo caso. E la sua vicenda ha attivato l’uso di una serie di luoghi comuni impressionanti nei confronti della nautica. Intanto qualcuno spieghi ai quotidiani che avere una nave da diporto con bandiera italiana è impresa quasi impossibile, oltre che inutile. Non si tratta di bandiere ombra, ma spesso anche del modo per avere gli equipaggi migliori, i registri migliori. Le navi da diporto sono quasi tutte offerte in charter e sono, come il Force Blue, nei cataloghi delle società di brokeraggio più importanti.  Come finirà? Un bel garbuglio: non sembra che Briatore abbia torto, e come era successo per il leasing è possibile che qualcuno dovrà fare marcia indietro.

I dieci team che sono schierati a La Maddalena sono i potenziali protagonisti della Coppa America numero 34. Sono un defender e dieci sfidanti: su All4One infatti navigano due equipggi che dividono le poche risorse e i molti talenti. Il defender BMW Oracle è partito male e finito peggio: doveva essere il protagonista ma è già escluso. Forse pesano i troppi festeggiamenti, i mesi passati a bordo del trimarano. D’altra parte si dimostra che hanno un vantaggio i team che hanno partecipato agli eventi di Nizza e Auckland. Squadre che sono cresciute molto. La prima fra tutte è Artemis, la barca svedese voluta da Paul Cayard, che da Nizza ha subito una totale trasformazione. A La Maddalena si dimostra quella più sicura, padrona del campo. Più lucida di Emirates Team New Zealand, Mascalzone Latino, All4One. Mascalzone e il suo team sono in grado di navigare bene, le altre due italiane meno. Azzurra nelle acque di casa, anche se la Costa Smeralda si può nominare appena, ha mostrato qualche smagliatura, ma attenzione ai facili giudizi, sono gli altri in crescita più che lei in calo. Luna Rossa paga la novità: lo squadrone è forte, ma da sintonizzare, da mettere insieme. Non bastano i quattro velisti italiani che hanno vinto la Coppa America a bordo (Plazzi, De Mari, Rapetti e Mazza) le nove medaglie che si sommano tra Grael e Scheidt e  il timoniere di Alinghi. Ricette? Programmi e denaro. Per alcuni team c’è di sottofondo una (ma loro lo sanno bene) mancanza di obiettivi organici, o la speranza di far le nozze con i fichi secchi, confidando in entusiasmi e giovani. D’altra parte senza Protocollo e regole è tutto un poco più complesso. Mascalzone e Luna Rossa sanno che faranno la Coppa, la campagna acquisti in pieno svolgimento. Per Azzurra la situazione è più incerta, non si percepisce una autentica propulsione verso la Coppa. Cosa definisce un team che vuole partecipare alla Coppa da uno che si limita a partecipare agli eventi del Louis Vuitton Trophy nella speranza che uno sponsor cada nella rete e finanzi l’avventura? Facile: chi ha scelto un progettista o almeno un responsabile tecnico serio vuole fare la Coppa America. Per il momento questi nomi sono pochissimi. Chi si è mosso bene è TeamOrigin che ha chiamato Grant Simmer, il responsabile del coordinamento del progetto di Alinghi. La squadra inglese con un professionista del genere è forte. Questo è anche il sintomo che Ernesto Bertarelli ha “mollato il colpo”: Ed Baird con Luna Rossa,  Simmer con TeamORigin, Vroljik conteso tra Luna Rossa e, forse, Azzurra. E Brad Butterworth? Si attende il ritorno della magica coppia Coutts Butterworth, oppure potrebbe arrivare anche lui dalle parti di Luna Rossa: il legame esiste. Grande amico di Matteo Plazzi (con cui ha fatto un giro del mondo su Winston) potrebbe dare un apporto concreto al team. Sono settimane importanti per la Coppa e manca un ingrediente fondamentale, che poi era la premessa delle buone intenzioni di Coutts e Onorato. Qui a La Maddalena manca una vera azione di “mediazione”. Le gerarchie e le relazioni tra Defender, Challenger, WSTA e Louis Vuitton sono confuse. L’associazione degli armatori (WSTA) è stata creata proprio per gestire la Coppa in caso di vittoria di BMW Oracle, ma non sembra che tutto debba andare in quella precisa direzione. BMW Oracle non ha voluto riparare di gran carriera le sue barche rotte da Bertrand Pace, sintomo forse di una presa di distanza dall’evento. Ma la domanda è: presa di distanza dall’associazione o dalla maison francese? Provate a rispondere, tenendo però conto che la Coppa America arriverà sabato per essere visibile al pubblico.

I porti turistici sono la vera Cenerentola del sistema infrastrutturale “turistico nautico” italiano. Perché? Soprattutto perché la cultura che sta alla base della concezione di porto turistico è sbagliata, aggrappata a una concezione di marina che funziona solo in alcuni casi, peraltro rari, che trasforma le barche in pretesti per costruire a terra e i porti in garage impenetrabili del turismo, aperti solo alle barche residenti. La trasformazione culturale necessaria è capire che il porto turistico, almeno in una forma buona per le vacanze, è una infrastruttura che porta benessere alle comunità locali. La regione Sardegna, tanto per fare un esempio, qualche anno fa ha messo in opera uno dei piani più inutili e disastrosi dedicati alla portualità turistica. Con un costo per posto barca incredibile (molti soldi pubblici) è riuscita a “de” localizzare i porti, con il risultato che ci sono alcune realtà in cui per comprare una bottiglia d’acqua bisogna prendere il taxi. Va da se che tolte alcune realtà famose il resto funziona poco, e funziona a costo di rimaneggiamenti continui e costosi. Se da una parte le comunità locali continuano a non capire come si può creare occupazione con i porti turistici dall’altra il fronte dei marina privati fa corpo unico e si difende su un terreno facile. Nelle condizioni attuali dello Stato è impensabile assegnare ai porti turistici un ruolo infrastrutturale e dedicare fondi pubblici alle opere. Spesso non servirebbe un euro pubblico, basterebbe mettere a disposizione quello che già esiste, moli inservibili costruiti per qualche elezione dimenticata. In Italia esiste una associazione di marina, si chiama Assomarinas e il suo presidente è Roberto Perocchio. Racconta una fase positiva nella costruzione dei marina, un censimento fatto dall’associazione che ha dei motivi di interesse. “Il nostro censimento più recente ci restituisce una stima di 40600 posti barca che verranno completati, realizzati nei prossimi anni. E’ una stima realistica, cui crediamo – dice – “si tratta di interventi nuovi, di recuperi urbanistici. La nostra impressione è che la delega alle autorità locali sta funzionando bene per concretizzare nuove strutture. Ad esempio l’iniziativa di Fiumicino ne è una concreta testimonianza”. Non tutti sono della sua opinione, anche se questo numero è positivo arriva dopo un immobilismo durato troppo tempo, rallentato proprio dal passaggio dei poteri demaniali alle autorità periferiche che ha provocato per almeno cinque anni una sorta di paralisi: le Regioni non erano pronte (non tutte per fortuna) con funzionari che avessero una cultura specifica sull’argomento. Chi c’era ha voluto rivedere in molti casi concessioni già concesse. E in termini di programmazione complessiva talvolta il peso si sente ancora: invece di un sistema organico, connesso e utile a un flusso turistico nautico che ha bisogno di diverse tipologie e servizi portuali, perché un conto è parcheggiare la barca durante l’inverno altro è navigare, spesso i marina nascono come funghi spontaneo spinti da richieste locali. Il tutto dovrebbe essere inquadrato in un intervento strategico, nazionale se non Mediterraneo. Una recente proposta di legge per la revisione delle Autorità portuali in qualche modo “liberalizza” l’uso dei pontili galleggianti, togliendo la necessità della licenza edilizia che per molti anni è stata usata come una delle scuse per bloccare i lavori può davvero servire a migliorare la situazione .In realtà la questione era discussa anche prima, nel senso che per alcune interpretazioni non era necessario arrivare alla licenza edilizia per queste strutture che sono mobili, ma il fatto che non ci fosse una norma univoca era fonte di incertezza. Racconta ancora Perocchio: “E’ una misura sensata, perché il Comune è già coinvolto nella concessione demaniale e quindi sa cosa succede. Era un inutile doppione”. Come abbiamo scritto all’inizio in alcuni casi il principale ostacolo allo sviluppo della portualità sembra essere la concezione classica di “marina turistico”: una enclave dove non si può entrare, non si può uscire. Certo è protezione ma spesso è anche una negazione della funzione stessa di porto, interfaccia tra il territorio, e i suoi abitanti, e il mare. Spesso il cancello è una invalicabile barriera. Ci sono luoghi dove per regolamento urbano i porti turistici collocati nei centri storici non possono essere chiusi al pubblico. Le barche da diporto diventano arredo, oggetti da guardare per chi frequenta il “sea side”. I viaggiatori a loro volta trovano un ambiente vitale, dove la vita è spontanea e non è generata con forza dalla gestione, per rendere il posto abitabile. Certo, questo può implicare dei problemi di sicurezza, ma anche per questo alcuni marina sono diventati dei grandi garage a cielo aperto. Dove si crea una vita artificiale o dove non si riesce per nulla a creare una vita.

Siamo a La Maddalena per le regate del Louis Vuitton Trophy. Uno dei maggiori quotidiani nazionali ha iniziato la sua battaglia “contro” già  da tempo, proponendo articoli e documenti molto contrari all’iniziativa, che hanno provocato anche qualche sconquasso: in particolare l’affermazione che una manifestazione sportiva dedicata ai vip non era non doveva essere di pertinenza della Protezione Civile e del Governo che hanno firmato i provvedimenti. Sulla carta non è sbagliato, le regate non sono una catastrofe, un terremoto, un allagamento. Però…. Per una comunità locale scippata del G8, che ha assistito allo scempio di una costruzione che ha visto protagonista il temibile Anemone con un esborso da parte dello Stato di oltre trecento milioni di euro destinata a restare lettera morta, mai finita, e mai destinata a essere finita come quei pezzi di autostrada che terminano nel nulla in mezzo alla campagna, serviti solo a qualche propaganda elettorale.  Insomma, la cosa equivale a un terremoto. Forse non brutale come quando la terra trema davvero, ma lo è. Ha fatto scalpore che i denari, circa 2,3 milioni presi dal fondo destinato al Sulcis su 4,5 del valore complessivo dell’evento (il resto lo mettono altri sponsor e Wsta che di fatto organizza le regate) fossero stati presi “a prestito” da quelli destinati al Sulcis, terra da bonificare dove da molti anni cento minatori manifestano per un futuro migliore. Cento minatori là, cento e forse più operai e impiegati nel vecchio Arsenale: con l’intervento di Mita (Forte Village di Marcegaglia) che ha preso in carico le strutture ben disegnate da Stefano Boeri e mal costruite da una pletora di imprese del “solito” giro italiano potrebbe tornare alla vita. Valore dell’intervento 75 milioni di euro, compresi ampi rifacimenti di quello che è stato fatto per il G8, perchè fatto male, come tutte le linee (ma come avrebbero fatto i servizi di comunicazione e sicurezza se davvero gli otto forti del mondo si fossero incontrati qui?) dedicate alle reti Web. Dopo un anno le colonne bianche, ma di ferro, sudano ruggine. Siamo al mare… Ma sembrano avere appena una mano di vernice. Anche questo è un terremoto insomma, il solito terremoto sui nostri portafogli. Forse non si doveva neanche cominciare a pensare che un posto come La Maddalena poteva avere una destinazione turistica di lusso…. Ma questo è l’unico modo per un posto incantato come questo per creare ricchezza per la sua comunità locale. Gli anni di dominio militare hanno avuto un esito positivo: è paradossale ma hanno conservato l’ambiente, lasciato all’isola un sapore autentico e non artificiale come nella vicina Costa Smeralda. Dunque ci chiediamo se quei due milioni e trecento, nulle al confronto dei trecento già spesi dallo Stato, dei 75 che verranno spesi da un imprenditore privato, siano davvero così scandalosi visto che sono il pretesto per parlare, scrivere, ma soprattutto riportare vita in un posto che sarebbe destinato a restare una cattedrale nel deserto.

Nel solito stile italiano la parte che si oppone tace che qui ci saranno delle opportunità di lavoro, tace sul fatto che i posti barca sono un buon modo per recuparare strutture portuali come questa e attivare una operazione “Robin Hood”: togliere ai ricchi per far lavorare i poveri. Talvolta si toglie anche troppo: ristoranti con listini criminali, dove si spendono 10 euro per un panino, 50 euro per un piatto di pasta e un mezzo vino, oppure 200 euro per un menù completo. Ma questo non fa scandalo.,. fa solo essere furbi.