Articoli

Alan Bond, il primo sfidante che sia riuscito a strappare l’America’s Cup agli americani (nel 1983) diceva: “chi si illude che la Coppa non sia una questione economica è un ingenuo”. Bond, australiano qualche anno dopo la vittoria ha fatto bancarotta. Era stato in grado di comprare nel 1987 gli Iris di Van Gogh per le cifra più alta mai battuta per un quadro fino a quel tempo, 53,9 milioni di dollari. Cifra poi battuta con un quadro di Jasper Jones. E la Coppa che si è corsa a Bermuda non va tanto lontano da questa regola aurea. Le isole sono state scelte per il campo di regata per la loro conformazione, ma anche per gli investimenti del Governo locale sia nei confronti del territorio sia verso l’organizzazione gestita dal defender Oracle e da Acea (America’s Cup Event Authority) di cui era presidente Russell Coutts. Un totale di 77 milioni di dollari, di cui 15 per Acea, 22 per infrastrutture (che restano), più meno quello che spende un team per partecipare.

Misurare il beneficio per le isole che sono considerate il luogo più costoso del mondo non è facile. Una bottiglia di acqua neozelandese o anche uno dei nostri marchi costa al supermercato quasi tre dollari, una mela un dollaro e mezzo. Il tassista interrogato risponde “è andata bene, quasi tutti hanno avuto qualcosa, è arrivato qualche migliaio di persone”. Altri pareri non coincidono, qualcuno scrive di alberghi che non si sono riempiti di tifosi e pubblico ma dei soliti turisti in cerca di spiagge.  Alle Bermuda abitano 65000 persone, e lo spostamento di qualche migliaio di persone che in una grande città di mare farebbe sorridere qui diventa sensibile. Nei giorni migliori degli eventi organizzati a Napoli si è arrivati a contare 50/60 mila persone presenti sul lungo mare, e non era vera Coppa America.   ACEA ha cercato di portare a casa denaro ovunque, dai diritti Tv ai biglietti. La produzione Tv meravigliosa per un evento di barche, cui sono dedicate 120 persone come a San Francisco. Tuttavia l’operazione è riuscita parzialmente, i dati di pubblico presente fisicamente sono molto modesti: il villaggio è pieno la sera quando ci sono i concerti e i Dj set che di giorno durante le regate. In molti casi i telespettatori hanno preferito rinunciare alle dirette tv per non pagare gli abbonamenti, anche alle app per tablet. Come ha dichiarato Matteo de Nora Team Principal di ETNZ in una intervista il problema della diffusione Tv diventa cruciale per assicurare pubblico alla manifestazione.

C’è anche un retroscena difficile da verificare ma di cui si parla con una certa insistenza. Il board dei director di Oracle avrebbe pregato Larry Ellison di spendere meno per la Coppa e lui stesso si sarebbe un poco annoiato del giocattolo e avrebbe detto ai velisti “cercate di essere autosufficienti”, ovvero pagate le spese con l’organizzazione e gli sponsor. Questa posizione potrebbe ragionevolmente spiegare anche la perdita di competitività del team velico e la sconfitta che si prospetta, ma non si spiega con il patrimonio personale stimato di Ellison in 50 miliardi e la sua natura di padre padrone dell’azienda. Per Emirates Team New Zealand  è facile spendere poco: sono abituati all’economia da sempre, la loro campagna vincente del 1995 è stata una delle più misurate della storia, e da allora è difficile che il denaro esca dal portafoglio senza motivo. Il team kiwi è sostenuto da tutta la nazione, in altre edizioni il Governo è intervenuto direttamente perché ha capito, purtroppo solo dopo aver perso nel 2003, che la Coppa significa avere un driver per l’economia del paese dove l’industria nautica che vale circa 1 miliardo di euro è tra le prime del paese e il turismo aveva goduto di una accelerazione, così come gli investimenti edilizi a Auckland. Una situazione completamente diversa, per interessi e dimensioni, da quella che si vive a Bermuda.

Per il dream team americano invece non avere denaro a fiumi diventa presto soffocante. E’ anche qualcosa di insito nei caratteri delle due nazioni. Quanto hanno speso? Sono stime ma ragionevoli: 50 milioni di dollari per i neozelandesi, 90 milioni di dollari per gli americani. Cifra simile per gli svedesi di Artemis. Solo gli inglesi di Land Rover BAR, guidati da sir Ben Ainslie si possono considerare i grandi battuti della edizione 35 della Coppa hanno speso di più dichiarando un budget di 110 milioni, di cui circa 60 raccolti tra gli sponsor maggiori, una ventina dalla città di Portsmouth che ha messo a disposizione base e strutture, più le donazioni degli stakeholder tra cui numerosi lord e sir. Gli altri sindacati ovvero i francesi di Groupama, i giapponesi di Softbank Team Japan, più o meno valgono 30 milioni e sono stati sostenuti da Oracle stesso con forniture di design e materiali. Uno dei quesiti per la prossima edizione è proprio come non perdere partecipanti, come riuscire a mantenere alto il livello di attenzione. C’è chi sogna le grandi edizioni della Coppa: 87 in Australia, 92 a San Diego, 2007 a Valencia, con tante squadre interessi ed eventi. La ricetta o la responsabilità  è in mano al prossimo vincitore.

Ernesto Bertarelli è alle Bermuda con il suo favoloso Vava2, nave a motore su cui ha lavorato per due anni al design, che è costata altri due anni per la costruzione. Si sposta ogni giorno cambiando spot nella baia. Segue in particolare il circuito Red Bull dove è iscritto un team svizzero, ma è qui ovviamente per la Coppa America. La sua passione. Sono tutti convinti che ritornerà. Lo farà, probabilmente, se restano i multiscafi, che gli sono sempre piaciuti e con cui ha corso il Bol D’Or la famosa regata su lago di Ginevra. Berterelli e il suo Alinghi hanno scritto la storia della Coppa America dal 2000, quando si è presentato a Auckland per assumere Russell Coutts e i suoi fedelissimi, fino al 2010 anno in cui è stato sconfitto da Larry Ellison con BMW Oracle. “Sono circolate voci sulla mia intenzione di fare il Challenger of Record – ha detto – non lo farò”.

Possiamo dire che finalmente si gode la Coppa America da spettatore?

“Sono qui sereno, neutrale, me la godo come una bella festa e con me sono tutti simpatici. Per una volta non ho nessun problema con nessuno, mi diverto e non è lavoro. La Coppa fa parte della mia vita ce l’ho nel sangue.  Sono stato invitato sulla barca francese da Franck Cammas ed è stato molto divertente. La cosa di cui sono più orgoglioso oggi sono i dieci giorni che ho passato qua e l’amicizia con le persone che ho incontrato in questi anni. Da chi lava il tender ai giornalisti, agli atleti. Mi hanno accolto bene anche dopo una edizione mancata”.

Le piace Emirates Team New Zealand?

“Sono tutti sorpresi dalla velocità dei kiwi e ancora una volta hanno dimostrato di avere inventività: anche solo da vedere la barca è più bella di quella americana. Nel primo week end c’è stato il vento giusto vediamo se aumenta cosa succede, non è ancora fatta”.

E’ vero che ha fatto la pace con Russell Coutts?

“Ho visto Russell,  sono andato a casa sua e abbiamo discusso di tutto ma soprattutto non di vela. E’ sempre difficile sapere cosa pensa lui ma credo di alcune cose sia soddisfatto. Il prodotto televisivo è buono, le regate delle selezioni sono state interessanti combattute”.

Pensa che Peter Burling sia il Russell Coutts del nuovo decennio?

“Si, ha proprio lo sguardo del killer. Penso che sia un vero talento e mi sembra che sia anche un ingegnare capace”.

Se vince la Nuova Zelanda ci sarà un ritorno ai monoscafi?

“Io penso che sarebbe un grandissimo errore perché oggi se si deve fare un monoscafo moderno bisogna comunque aggiungere qualcosa sotto, foil derive basculanti, e la barca diventa complicata. Personalmente non credo fatto al monoscafo, agonisticamente ho iniziato con i multiscafi e li trovo entusiasmanti. Bisogna anche comprendere che c’è un problema di concorrenti, quando si potevano costruire più barche una delle due utilizzate in una edizione poteva andare a un team che entrava, venduta o in prestito nella successiva.  Adesso non c’è questa possibilità ed è difficile fare esperienza e avvicinarsi al livello necessario e acquisire velocità. Penso che il problema sia lo stesso qualunque team vinca. Sarà difficile trovare concorrenti”.

Che formato suggerisce per una prossima Coppa, se fosse nella stanza dei bottoni a decidere cosa proporrebbe?

“Se dovessi fare il COR di sicuro manterrei le barche, queste perché ce ne sono già sei. Darei un piccolo vantaggio alle squadre che entrano come si fa in certe classi dove ai nuovi arrivati si danno un paio di vele in più. Una squadra nuova potrebbe avere qualche foil in più, in maniera che se sbaglia clamorosamente può rientrare in gioco. Cercherei di fare la prossima edizione tra due o tre anni al massimo e non quattro.  Due anni non è male anche per una squadra che arriva nuova. I costi sono minori. Farei molte più regate di circuito. Lascerei stare gli AC 45 che non significano più nulla e non vanno in foil con poco vento. Farei  al più presto regate di circuito con le barche di Coppa”.

La nazionalità è un altro argomento su cui si discute molto.

“Se devo essere egoista una volta sarebbe stato un problema per la Svizzera, adesso abbiamo una generazione di giovani che hanno 20 / 25 anni e quindi molti più marinai che all’epoca. La Coppa ha più bisogno di team che della regola della nazionalità e quindi dobbiamo trovare un equilibrio. Nessuno vuole tornare a una situazione come quella del 2010, così conflittuale. Però il protocollo fa sempre in modo che il defender abbia vantaggi e quando una delle squadre ha vantaggi c’è sempre una ragione per discuterne”.

 Cosa le è piaciuto meno di quello che è successo qui?

“Non correi ripetermi  ma la cosa che pesa di più sull’evento è il numero delle squadre. Si può cominciare a far discussioni su una cosa o l’’altra. Ma il numero è importante.

Cosa bisogna fare per richiamare più squadre?

“Purtroppo la Coppa continua a essere una cosa non proporzionata in termini di costo e resa per gli sponsor.  La Formula Uno costa molto di più ma rende molto di più e la relazione tra incassi e costi è più equilibrata. Quando mi guardo attorno trovo che chiunque sia il defender deve porsi questa domanda. Deve fare molta attenzione al relativo costo della squadra a confronto dell’incasso. A Valencia siamo arrivati a dare 10 milioni di euro a ETNZ per il secondo posto.  Eravamo comunque riusciti a rinnovare il sistema e a questo non siamo ancora tornati. Ci vogliono più squadre e per avere più squadre ci vogliono meno costi. Avevamo Cina e Sud Africa,  un gioco più aperto”.

 Si è rivisto con Larry Ellison?

“Non ho ricostruito un rapporto con Ellison. Come ho incontrato Russell Coutts incontrerei Larry. Oggi non ho più risentimento e ho solo esperienza. Il risentimento non è una buona cosa. Ho imparato certe cose, certamente ho fatto degli errori e so che li ho fatti. Ma questo è dietro di me. La vita è troppo corta”.

Tornerà alla Coppa America, ci sono delle condizioni per tornare?

“Quanto ho fatto la Coppa nel 2000 avevo varie ragioni per farla Oggi ce ne sono molte meno. La principale è che l’ho già vinta due volte e quindi sono meno accanito che certi altri. L’altra è che penso che ci sia troppa incertezza e probabilmente la Coppa ha un momento critico peggiore di altre volte. Forse quando Ellison ha iniziato la battaglia legale eravamo messi male, forse peggio. Ma questo può essere un momento simile. Adesso è difficile lanciare una sfida con l’incertezza che resta sulle barche da usare. E’ tutto molto difficile per una nuova squadra. Bisogna aspettare a vedere chi vince e cosa ci propongono. Speriamo che non ci facciano aspettare per sei mesi come  fatto in passato”.

Quanto può esser un budget sostenibile per squadra.

“Ho sentito diverse cifre, dai trenta milioni di euro per i francesi agli 80 milioni di pound per gli inglesi. Gli inglesi dicono che serve molto meno e i francesi dicono che con trenta milioni non è abbastanza. Dovremmo avere squadre che con 30 milioni ce la fanno a fare una buona partecipazione e con 50 possono vincere.  Finora non ho mosso nessuna pedina”.

p.s. L’intervista è stata realizzata assieme agli inviati della Gazzetta dello Sport

I kiwi vanno di più. Nessuno lo vuole dire per scaramanzia. Ma è così: la superiorità è evidente almeno con il vento che non ha superato i dodici nodi del primo week end di regate. La sfidante Emirates Team New Zealand è stata migliore del defender Oracle in tutti i settori: ottime le quattro partenze di Peter Burling, che si temeva fosse a disagio con l’esperto avversario James Spithill, ottima la velocità, a volte tremendamente superiore a quella degli americani. I neozelandesi hanno prima rimontato il punto di svantaggio con cui partivano per merito della classifica dei Round Robin, e poi si sono elegantemente portati sul 3 a zero. Il campo americano è visibilmente abbattuto  ma c’è una grande prudenza da parte kiwi: nel 2013 gli americani sono stati in grado di esprimere una furiosa rimonta che non ha lasciato scampo. A Coppa praticamente vinta: giova ricordare che i neozelandesi erano in testa nella regata che poteva essere decisiva ma che è finita fuori tempo massimo e da li sono cominciati i loro guai. E James Spithill ha promesso “proveremo di tutto, ci siamo già riusciti una volta. Cinque giorni di lavoro sono tanti”. Vero, si ricomincia a regatare sabato prossimo e in tutto questo tempo Oracle può trovare delle soluzioni come ha fatto a San Francisco senza questa pausa.  Tuttavia non sempre riesce la manovra. E a quanto pare i neozelandesi sono riusciti a esprimere miglioramenti di velocità anche in questi giorni, sembra perfino che abbiano dosato l’acceleratore dell’innovazione per non mostrare troppo di quello che avevano in casa. Insomma hanno tenuto nascosto qualche “weapon” per il gran finale.
SI sprecano i complimenti per il timoniere Peter Burling. Freddo in conferenza stampa, freddo in regata e ben coordinato con lo skipper e tattico Glen Ashby. Lo speaker di una delle televisioni americane ed ex velista Ken Read prima della partenza della prima regata, vedendolo troppo sereno ha commentato “qualcuno spieghi a questo ragazzo che sta per cominciare la Coppa America”. E l’ha cominciata senza soggezioni, con una sessantina di pulsazioni. Qualche errore il primo giorno, soprattutto una mancata intesa con il tattico e skipper Glen Ashby che deve tenere per alcuni secondi il timone nelle manovre. Più puliti domenica, in cui i kiwi hanno somministrato lezioni ancora migliori agli americani che pure avevano cambiato degli assetti  nel tentativo di avvicinarsi alla velocità dei neozelandesi.  La barca neozelandese rispetto a quelle degli avversari ha due differenze fondamentali, la forma delle derive che anche in televisione è molto visibile, quella kiwi ha una forma spezzata e più lunga che è quello che le da vantaggio con poco vento, e il modo di regolare l’ala. Questo nella frenesia delle immagini televisive è più difficile da vedere ma sembra essere una delle chiavi del successo dei neozelandesi che hanno anche un sistema di regolazione assistito che non prevede il verricello che ancora hanno gli avversari. Tutto più rapido e semiautomatico. Questa è sicuramente un argomento su cui gli americani lavoreranno intensamente osservando i video per comprendere le differenze.

Il prossimo week end sarà quello del tutto esaurito: le Bermude confermano la loro attitudine di paese dei balocchi,  infatti sono arrivati i megayacht che hanno riempito le banchine, le rade sono piene di barche di tutti i tipi. Il pubblico si dispone attorno al campo di regata dove in realtà dalla barca si vede più o meno quello che si vede d terra, ma certo non si fa sfoggio dei propri gioielli. Nei prossimi giorni si gioca quello che è iniziato già da tempo: il toto Coppa. Cioè la scommessa su come sarà la prossima edizione. Tanti tifano ETNZ nella speranza che riporti alla vecchia leggenda il regolamento soprattutto al monoscafo di grandi dimensioni, alle regole che impongono che ci sia una gran parte dell’equipaggio della nazionalità di bandiera del club sfidante. Insomma, che ci sia una sorta di restaurazione dopo quello che ha imposto Russell Coutts nella convinzione che abbia impoverito lo spettacolo più che arricchirlo. Sarà così? Intanto uno degli sponsor di ETNZ, Toyota, ha pubblicato una pagina sul quotidiano locale “se ci sostenete vi lasciamo la barca”. Come dire: se vinciamo non ci serve più e resta qui.

Inizia la edizione numero 35 della America’s Cup. Si corre alle Bermuda, isole in mezzo all’Atlantico che oltre alle braghe corte da indossare con i calzini lunghi hanno ispirato a William Shakespeare il tema de La Tempesta: nei bar di Londra raccontano del naufragio della Sea Venture nel 1609 sui banchi di corallo a nord dell’isola e lui elabora.  La battaglia navale che si annuncia molto intensa è tra gli attori nella Coppa America numero 34 di San Francisco, è una re-match con qualche cambiamento: la misura delle barche, un timoniere. Il defender è Oracle, il sindacato del ricchissimo Larry Ellison condotto da Russell Coutts (uomo che ha vinto di più in Coppa)  che ha affidato l’equipaggio a James Spithill. Il challenger è Emirates Team New Zealand, che partecipa al match come defender o challenger fin dal 1995 con la sola interruzione del 2010. Il team è protetto da Matteo De Nora, di origini italiane, condotto da Grand Dalton un coriaceo organizzatore. Il timone è affidato a Peter Burling.  Si corre solo nei week end e questo lascia un buco enorme nel pubblico, ma apre la possibilità ai team di “ricostruire” le barche. E’ un vero vantaggio? Mica tanto, perché lo è per entrambi. Si corre al meglio di quindici regate, quindi la Coppa va al primo che vince sette regate. Sono tante. Il programma potrebbe finire domenica prossima o lunedì, se tutto fila come da programma. Per il primo week end  previsto vento debole che dovrebbe favorire i neozelandesi.

Nel 2010 a Valencia James Spithill a 31 anni è stato il più giovane timoniere a vincere la Coppa America, governava il mostruoso trimarano BMW Oracle e ha battuto Alinghi. In questi giorni Peter Burling può battere il suo record di gioventù: ha suoi 26 anni un sorriso neozelandese, la sua mascella forte ha una vaga somiglianza con quello sir Edmund Percival Hillary che a 34 anni ha scalato per l’Everest meritando di finire ritratto sulle banconote da 5 dollari neozelandesi. A Peter potrebbe davvero capitare un destino simile: la Nuova Zelanda vuole e ha bisogno della Coppa, non è solo una questione sportiva è per dare impulso a industria e turismo. Si sono già incontrati nelle fasi preliminari e Oracle ha vinto il confronto, tuttavia non è determinante: tutti i team sono cresciuti in questa fase di allenamento.

Nel mondo e nel villaggio della Coppa quasi tutti tifano kiwi, alle Bermuda sono gli unici tifosi, come sempre arrivati numerosi e pieni di bandiere, kiwi di pezza e infradito. I kiwi piacciono, sarà il peso delle sconfitte o più verosimilmente quel filo sottile che unisce il pubblico dagli atleti autentici.
Intendiamoci, non che l’equipaggio di Oracle non lo sia. Sarebbe un’offesa, chi non ricorda Spithill poco più che adolescente che in partenza a Auckland ingaggiava lotte feroci  nella Coppa del 2000. James Spithill e Tom Slingsby  sono marinai raffinati, e sulla carta forse pure più forti di Emirates almeno nel match race e infatti quello che si teme di più è l’aggressività di Spithill in partenza, dove sanno tutti che non lo batte nessuno.   Quello che non piace è la sottile arroganza del team americano, che ha sempre strappato il risultato con una certa violenza e poi per aver imposto al mondo conservatore della vela i catamarani volanti e un loro programma di regate già più o meno pronto per la prossima edizione, da correre nel 2019 con le stesse barche.

Quattro anni gli americani fa partivano con due punti di svantaggio, meritati per aver “taroccato” gli AC 45, le barche con cui correvano il circuito preliminare. Adesso ne hanno uno di vantaggio per aver vinto le fasi preliminari dove regatavano assieme ai challenger. Un punto  che può essere determinante come riconosciuto da tutti. Attenzione, nel gioco dei punteggi è un meno uno per New Zealand, significa che Oracle deve comunque vincere sette regate e i kiwi otto.

Non solo quello, hanno un vantaggio un poco più complesso da spiegare. I neozelandesi in qualità di sfidanti hanno avuto la possibilità di costruire una sola barca. Ai defender invece due che in realtà non hanno in realtà costruito. Ma… Softbank Team Japan ha usato una piattaforma  (di dice così del catamarano) costruita dal cantiere di Coutts ed Ellison in Nuova Zelanda praticamente identica a Oracle e per i requisiti di nazionalità bastano poco più di due metri di prua costruita nel paese di bandiera per far diventare magicamente tutta la barca di quella nazionalità. Insomma, cambiando le due prue rosse la barca giapponese diventa americana. Potrebbe servire per una capriola, per un guasto. Questo potrebbe consentire agli americani di essere un poco più aggressivi, meno conservativi soprattutto in partenza.

Una decisione che a noi appare improvvisa getta ancora una volta il magico mondo della Coppa America nell’incertezza. Il Challenger of Record, l’australiano Hamilton Island Yacht Club per la famiglia Oatley (soprattutto vino e resort nei loro interessi) con uno statement ha manifestato l’intenzione di ritirare la sfida, confermata poi con manovra renziana (siamo in tempi moderni) via twitter. Un fulmine a ciel sereno: sebbene con un equilibrio precario la edizione 35 del più antico Trofeo velico stava andando avanti. E dire che solo un paio di settimane fa l’uomo forte di Team Australia Iain Murray era a Malcesine per allenamenti e regate su mezzi “foiling”, il singolo Moth e il catamarano GC 32 e si era affacciato alle regate Star. Aveva lasciato dichiarazioni critiche con Oracle: “è stata dura ma abbiamo portato a casa un Protocollo, una base decente che speriamo di modificare nei punti oscuri” ma non sembrava vicino a un passo del genere. Poi però, pochi giorni fa, un meeting tra sfidanti e defender ha riaperto il solco tra le incertezze e le pretese di Russell Coutts, cui Larry Ellison lascia più o meno fare tutto quello che vuole, su date e luoghi che mancano ancora rendendo ogni programma del tutto incerto. Cosa si propone agli sponsor? Alcuni team hanno preso la decisione di esserci in ogni caso come Luna Rossa e Artemis, altri hanno bisogno di attrarre sponsor come quello inglese di Ben Ainslie o i kiwi di New Zealand e altri che stavano lavorando per arrivare in tempo e le sedi proposte delle isole Bermuda o San Diego non sembrano molto interessanti. E poi, anche i due finora pazienti Patrizio Bertelli e Torbjörn Törnqvist potrebbero svegliarsi un mattino con la mosca al naso. Non sarebbe la prima volta. Insomma Bob Oatley, un energico signore australiano che aveva lanciato la sfida con la fiducia di poter riportare la Coppa a essere un evento per velisti, dopo mesi di estenuanti trattative ha mandato tutti a quel paese, così come aveva fatto Vincenzo Onorato con Mascalzone Latino, più o meno per gli stessi problemi, lievitazione dei costi verso cifre impreviste, difficoltà delle relazioni con sua altezza Coutts che ha imposto mediazioni difficili da digerire. E’ la seconda volta in due edizioni che il Challenger of Record si ritira dal suo ruolo e prima in quasi due secoli non era mai successo. Oatley, un passato di regatante storico e molti record con le sue barche da regata che chiama Wild Oats, deve proprio aver pensato “ma chi me lo fa fare in questa gabbia di matti, torno alle mie vigne sulla mia isola privata”. Adesso il ruolo di Challenger of Record potrebbe passare a Luna Rossa oppure ad Artemis, i due che hanno presentato sfida e deposito monetario (prima rata da un milione di dollari) formale. Ma qui c’è il pasticcio: gli americani non avevano ancora accettato le due sfide, pretendendo per farlo di arrivare almeno a quattro sfidanti, e New Zealand e Ainslie a quanto pare stavano aspettando il termine dell’8 agosto per farlo. Ben Ainslie infatti ha fatto l’annuncio con festa, principessa e baronetti ma non il versamento e gli atti formali. Dunque a chi toccherebbe la successione? Di solito conta la cronologia, e se conosciamo un poco il carattere di Luna Rossa non vorrà prendersi questa grana di poco onore e molto onere. Quanto successo potrebbe, anzi dovrebbe, riaprire il dibattito sul Protocollo che se non viene firmato da un altro Challenger non ha nessun valore. Siccome piaceva poco questa potrebbe essere l’occasione per ricominciare a litigare nel tentativo di togliere qualche vantaggio al Defender e costringerlo (letteralmente) la dove Murray non era riuscito. La Coppa, è il caso di dirlo, è il alto mare… Ancora una volta peccato e nostaglia di quando esistevano i riferimenti, che non è un tempo tanto lontano.

La quinta sfida alla Coppa America di Patrizio Bertelli e di conseguenza di Prada è quasi lanciata: mancano alcuni aspetti formali ma quello che conta è che la base allestita a Cagliari sta già lavorando a tutta forza agli ordini dello skipper Max Sirena per produrre velocità e allenare campioni. Oggi la notizia è stata diffusa urbi et orbi con un comunicato interattivo, qualche video senza sonoro e comunicati stampa. La domanda da porre ai lettori e in assoluta amicizia a Max Sirena è: bisogna parlare di chi non vuole si parli di lui? Ovviamente interpretando questo come un desiderio riservatezza e non una volontà cui si è costretti per altri motivi, base non pronta, Protocollo difficile. In questa scelta forse ci sono risvolti semiologici e forse anche un modo di intendere la comunicazione nuovo. Si, nuovo e da comprendere e indagare. Mentre tutto è frenetico, il capo del Governo e il Papa twittano e questo sembra l’unico modo di vivere sui nostri eroi scende la saracinesca del riservo. Un vecchio detto, tra giornalisti dice “con Luna Rossa si sbaglia sempre”, perché comunque vada quello che scrivi, dici, fai, è sempre preso da un punto di vista che non ti aspettavi. Volevi essere un sostegno e ti trovi dalla parte dei cattivi. Ma come diceva Chiambretti: comunque vada sarà un successo. Insomma W Luna Rossa. Sembra che questa volta, finalmente per lui e anche per noi, il timoniere titolare sarà il bravo palermitano Francesco “Checco” Bruni, anche se gli sono affiancati altri nomi come Chris Draper e il neozelandese Adam Minoprio. Oltre al team che ha fatto esperienza a San Francisco ci saranno alcuni vincitori a bordo di Oracle, l’italiano Gilberto “Gillo” Nobili, l’italo caraibico Shannon Falcone, l’americano Simeon Tienpont. In totale i nuovi arrivi sono una quindicina, presi come si fa sempre da tutti i sindacati che hanno partecipato per entrare in possesso delle esperienze buone e cattive. Dallo sconfitto team neozelandese che sta vivendo un momentaccio il progettista principale Marcelino Botin, spagnolo di una ricca famiglia che lo ha sempre lasciato giocare con le barche. Ma nel design team ci sono altri nomi importanti, citiamo Mario Caponetto (vincitore due volte con Oracle) e Michael Richelsen, un tipo che ha messo le mani in quasi tutti i codici per la progettazione di vele. Questa volta si tratta di progettare un catamarano foiling (che si solleva sull’acqua) lungo poco meno di diciannove metri della nuova classe AC 62, un solo scafo per sfidante mentre il defender ne avrà due sebbene dello stesso progetto. Ma questo è comunque un vantaggio determinante in termini di sicurezza (possono tirare di più sapendo che hanno comunque una barca di riserva, possono fare esperimenti mentre gli altri sono impegnati in regata). Purtroppo i cattivoni di Oracle, Russell Coutts e Larry Ellison con il Challenger of Record Bob Otley e Iain Murray (primo sfidante) hanno scritto un Protocollo con regole piuttosto ingiuste e difficili da digerire, che in alcuni casi hanno dovuto subito ritrattare o meglio “chiarire” come quella della Giuria autonoma e non ISAF che pone seri problemi agli atleti. La Auld Mug, come sempre, andrà avanti tra mugugni, prese di posizione, aggiustamenti. E anche fortuna: se i grandi sconfitti neozelandesi non avessero “inventato” il foiling le regate di San Francisco sarebbero state noiose, per non parlare dello storico comeback di Oracle che ci ha fatto versare fiumi di inchiostro. Pare che anche Patrizio Bertelli abbia sparato qualche bordata delle sue ad alzo zero contro il Protocollo, ma alla fine la sua anima combattiva e toscana non si spaventa delle regole ingiuste: questa è la sua quinta sfida ed è già finanziata da Prada con una cifra di 55 milioni di euro, destinati a crescere perché il budget medio per ambizioni di vittoria si stabilizzerà verso gli 80 milioni, almeno facendo arrivare l’investimento complessivo in quasi vent’anni di partecipazione vicino ai 300 milioni di euro. Nella storia secolare ha fatto come lui solo sir Thomas Johnstone Lipton con i suoi Shamrock, un altro fortissimo self made man, eterno sconfitto in acqua ma assolutamente vincente nella vita. I nostri eroi prima di arrivare a sfidare il defender Oracle questa volta gestito da James Spithill (su Luna Rossa nel 2007) dovranno vedersela con i già citati australiani eredi degli storici vincitori dell’83, con gli svedesi di Artemis condotti dall’inglese Iain Percy. Mentre i neozelandesi di Grant Dalton faticano a mettere insieme il budget il più pericoloso sarà sir Ben Ainslie che ha lanciato un dream team che si aggiunge alle sue cinque medaglie olimpiche e vuole a tutti i costi riportare la Coppa dove è stata forgiata. Attenti, questa diventerà una impresa nazionale, come uno sbarco in Normandia del terzo millennio: sir Keith Mills, l’uomo che ha portato le Olimpiadi a Londra, è lì con loro sorridente nelle foto, pronto a dare il suo contributo con le connessioni nella city. Altre notizie? La Coppa è prevista nel 2017, sede più probabile San Diego perché San Francisco ha detto no, prima ci saranno regate di preparazione.

Il Protocollo è arrivato, con ampio ritardo sulla data promessa, ma soprattutto con ampie concessioni dal defender che sono state l’oggetto del grande ritardo nella sua presentazione. Il Challenger of Record ha ottenuto davvero poco per gli sfidanti in cambio delle pretese di Oracle. Iain Murray sulla stampa australiana ha parlato di cambiamento epocale in positivo. Ma a parole siamo bravi tutti…. i fatti pur non avendo letto nel dettaglio le tante pagine  sono diversi e lo scenario appare peggiore di quello dell’era Alinghi, dove il catenaccio imposto dal defender cominciava a essere forte e talvolta sgradevole.  Le barche saranno spettacolari, gli AC 62 possono essere uno strumento moderno per le regate, il foiling non è male. Ma il futuro degli eventi sportivi non è solo tecnologia, lo spettacolo passa attraverso rapporti con il pubblico più raffinati di qualche chilo di carbonio. Dove è il messaggio sportivo? Questo sarà sport “olimpico” o “kermesse”? Iain Murray e Russell Coutts potrebbero aver firmato l’ultimo atto della Coppa America, che come sappiamo non morirà (la Auld Mug ce la fa sempre) ma che finirà per vivere di se stessa, mondo autoreferenziale. Altro che concorrenza ai mondiali di calcio, alle Olimpiadi, al Tour de France, mancano i requisiti minimi di trasparenza. Certo, stanno diventando carrozzoni infernali anche quelli, gestiti da burosauri impomatati. Ma ci sono lezioni da imparare.
Di fronte a una “legge” qualsiasi ci si pone la domanda: “dove ci vuole portare chi l’ha scritta”? Regolamenti edilizi, regole di stazza, norme ambientali producono sempre modificazioni agli oggetti, al’ambiente. Dunque in altre parole, dove mira questo Protocollo? Che sia una intenzione esplicita (gli americani non ostante i loro studi di marketing sono talvolta di una ingenuità raggelante) o no, i challenger sono probabilmente destinati a restare cinque, che ben conosciamo, se non a scendere per abbandono. Le date di iscrizione sono molto vicine, il fee e il deposito sono abbondanti e solo chi è già al lavoro adesso ha già le risorse e la sicurezza interiore per iscriversi a un evento dove parte subito penalizzato.
Si sa che la Coppa America è fatta per caratteri forti, che chi vince scrive le regole. Però… la promessa sportiva era diversa, il depliant presentato da Ellison durante una combattuta conferenza stampa dell’estate 2007 era ben diverso, si parlava di valori sportivi, perfino “democratici”. Quasi quasi bisognerebbe avere la forza di dire: non ci sto. E infatti il New Zealand Herald già scrive a Dalton e compagni di defilarsi all’inglese senza rivincita. C’è una barca libera per partecipare alla Volvo Race, roba da uomini forti, i rumors dicono che Knut Frostad pur di avere sette partenti la vende con grande sconto. Una opzione per i kiwi, ma anche per Luna Rossa.
Ma come si fa a tirarsi indietro? Il Protocollo è certamente il risultato si una lunga azione di mediazione. Mancano le sedi di regata e senza quelle è più complesso progettare e finanziare. Chi vorrà mettere sul piatto 2 milioni di dollari per l’iscrizione per aspettare nuove regole che forse verranno? Forse solo un ricco emiro, nessuno sponsor che si muove secondo strategie e previsioni di contatto. Oltre all’unico sfidante sicuro australiano Bob Otley (Challenger of Record con l’Hamilton Island YC) chi ha già manifestato l’intenzione di esserci sono la nostra eroica Luna Rossa con Patrizio Bertelli alla quinta sfida e Max Sirena alla sesta campagna, gli svedesi di Artemis con Iain Percy in cabina regia, il baronetto Ben Ainlie con un sindacato che sventolerà l’union jack, un vincente nello sport con le sue cinque medaglie luccicanti e la sua azione risolutiva su Oracle nello storico come back e infine lo sconfitto Team New Zealand, incerto nella raccolta fondi, nella scelta dello skipper e ora nel supporto nazionale. Come prima impressione (e con tutto il desiderio di essere smentiti) non c’è posto per il ventilato secondo sindacato italiano, per quello di lingua araba, per i russi, per i cinesi, non c’è posto per altri defender che l’America avrebbe potuto produrre come ha sempre fatto. La edizione numero 35 non potrà superare in concorrenti quelle di Perth, San Diego, Auckland, Valencia. La cosa positiva è che i sindacati che hanno promesso la partecipazione sono di qualità, pochi ma buoni direbbe la nonna.
I vantaggi grandi per Oracle sono almeno tre. Intanto, non era mai successo non ostante i tentativi di farlo in passato, corre assieme ai challenger una regata non solo dimostrativa, come erano le world series con barche vecchie o con gli AC 45, che darà un punto importante nel match. Sulla carta l’idea non è male anche perché, per come stanno le cose, si trova a conquistare questo punto contro tutti gli sfidanti, però gli sfidanti lo “pagano” lasciandogli la possibilità di analizzare in regata le prestazioni dei loro AC 62, fatto che può diventare determinante per il risultato finale. Il defender può costruire due scafi (o meglio quattro che fanno due barche) ma dallo stesso progetto: la two boat campaign è fondamentale per costruire velocità, la stessa operazione dei kiwi nel 95, procedendo a modifiche graduali di cui verificare l’efficacia in acqua. Gli sfidanti lavoreranno con un solo scafo e mentre saranno impegnati in una località che non è quella dell’evento finale rischiando rotture il defender ne terrà uno ben custodito nella sua base. Infine la Giuria indipendente, non “imposta” dall’Isaf ma scelta tra avvocati sportivi. Dopo i due punti di penalità (che potevano essere una squalifica) per il taroccamento degli AC 45 è evidente che gli americani vogliono avere la possibilità di manovrare meglio queste decisioni. Ma quel che ci interessa di più è: cosa farà questa Coppa per diventare un grande evento? A San Francisco grande produzione televisiva per nessuna diffusione, bello spettacolo per un pubblico molto ridotto complici una serie di errori di prospettiva nella cessione dei diritti Tv, che in realtà non valgono quasi nulla, e la speranza che come succedeva decenni addietro la stampa si buttasse sull’osso con voracità. Purtroppo la crisi mondiale del mondo editoriale, il cambio dei gusti del pubblico, i costi ingenti di produzione e trasferta a fronte di risultati dubbi sono un freno che si può sbloccare solo investendo denaro vero per assicurarsi audience. Operazioni di marketing aggressive forse, ma che gli altri sport hanno praticato senza presunzione ammettendo che di Formula Uno ce n’è una sola. Dopo San Francisco insomma speriamo non sia una seconda edizione del “non comunicare” o perlomeno farlo con vecchie strategie contando sulla sicurezza femminile “sono ben truccata si accorgeranno di me”, pensando che sia il pubblico a muoversi senza essere perlomeno invogliato, senza una strategia di conquista, nessuno si accorgerà nel 2017 della Coppa America, perché le tecnologie a disposizione non sono l’unica chiave del successo.