Una delle barche più famose della Coppa America è questa New Zeland, ormai trasformata in museo galleggiante per trasportare i turisti nel Viaduct Basin di Auckland. Disegnata dallo studio Farr doveva essere imbattibile con il vento di San Diego grazie alla sua configurazione con due chiglie: sulla carta una soluzione vincente per la “portanza” ma molto difficile da mettere a punto. In quella edizione della Coppa non era l’unica a tentare questa strada, infatti anche Spirit of Australia di Iain Murray la montava con un certo successo ma il team non era molto ricco.
New Zealand è quella che ha incontrato il Moro di Venezia nella finale Louis Vuitton, la barca diventata famosa per il bompresso e per la grande protesta che lo riguardava poi vinta dal Moro. Va detto che il bompresso era certamente usato in maniera irregolare per le regole del tempo, ma che i vantaggi che dava in termini di prestazioni sono molto modesti, al tempo calcolati come qualche secondo per ogni strambata.
La configurazione con due chiglie “twin keel” può dare vantaggi notevoli soprattutto nella navigazione in linea retta mentre è più difficile la manovra in partenza e spesso dovevano timonare in due, il tattico David Barnes azionava la deriva di prua e il timoniere Roderick “Rod” Davis quella di poppa. Nelle ultime due regate nel tentativo di ribaltare la situzione hanno debuttato in Coppa America il tattico Brad Butterworth e il timoniere Russell Coutts.
Le prestazioni erano ottime con mare quasi piatto e vento di 6, 8 nodi. Per il resto New Zealand era una barca corta e leggera, una soluzione che nella formula Iacc non si è mai confermata vincente e tutti hanno scelto una strada verso le massime dimensioni di peso e lunghezza. Dunque le prestazioni “assolute” della configurazione della chiglia non sono del tutto misurabili. Il Moro di Venezia è stato il primo Iacc a raggiungere le massime dimensioni, strada seguita anche da America Cubed che ha aggiunto due intuizioni fondamentali, ridurre la larghezza in coperta e la superficie bagnata con chiglia e timone molto piccoli, strada seguita poi da tutti i progettisti.

Ha fatto paura a tutti i marinai del mondo, durante i secoli delle grandi navigazioni e delle flotte delle grandi battaglie a vela ha fatto più vittime dei cannoni. In un libro ben scritto la storia dello scorbuto e della scoperta del suo rimedio: la vitamina C, acido ascorbico. Pochi sanno che il nome è una contrazione di antiscorbutico. I romani avevano capito che i limoni freschi proteggevano gli equipaggi, l’usanza si era poi persa nei secoli e prima di tornare a capire quali alimenti erano davvero utili ci sono voluti quasi duemila anni. Prima dei viaggi di scoperta era difficile che le navi restassero in mare per un tempo così lungo da favorire l’insorgere dello scorbuto. I primi sintomi insorgono infatti dopo due, tre settimane di alimentazione povera di vitamina C, e tra questi proprio quello di essere “scorbutici”. Il problema diventa grave al tempo delle grandi flotte, soprattutto quella inglese, e delle tremende usanze di bordo. Gli equipaggi erano infatti prigionieri sulla loro nave per mesi, con alimentazione in prevalenza fatta di cibi conservati e quindi poveri di vitamina C. Forzati a bordo anche quando le navi erano in rada, per evitare diserzioni. I medici dellAmmiragliato britannico si perdono nella burocrazia e i primi risultati concreti sono del settencendo, con i viaggi di Cook che porta verdure quasi fresche. Alla fine del libro si scopre che anche noi marinai del terzo millennio dobbiamo proteggerci, perchè in realtà nella nostra alimentazione che ci spinge verso il sovrappeso mancano comunque alcuni cibi fondamentali.
Insomma, un libro che chi naviga fa bene a leggere, per tornare al passato delle grandi navigazioni ma anche scoprire scorci di vita a bordo. Dove si trova? Nelle librerie inglesi e americane sul Web. L’autore è Stephen R. Bown l’editore è St Martin’s Press.

per corrispondenza Barnes&Noble

Dicono che non si debba toccare prima di vincerla…. ma quando l’ho vista li, nella Base 8 di Bmw Oracle, circondata da gente al limite del coma etilico ho pensato: “e io quando posso vincerla… e quando mi ricapita”… mi sono messo in coda per prenderla finalmente in braccio. Avevo fatto tante foto, ma mai così. La prima volta che ho sentito parlare di Coppa America è stato attorno agli anni 80. Allora navigavo sull’Ec 26 dell’amico Enrico. Sesta classe Ior, progetto Ceccarelli. L’equipaggio della prima Azzurra usciva in mare a Porto Corsini: quando vedevo l’albero di comparire tra le dighe correvo con la moto a dare un occhio. Quella che adesso consideriamo una vecchia pentola per noi giovani velisti era fantascienza. Durante le regate di Newport l’unico collegamento era la radio, qualche articolo sulla Gazzetta, ma due giorni dopo. Da allora ho inseguito la Coppa con quella vena di follia che può finire per rovinarti la vita. Ho fatto della vela un mestiere, sono diventato anche direttore di Vela e Motore e lo sono stato per quindici anni. La Coppa vive molte leggende, alcune sinistre. Ma è troppo bello prenderla, alzarla, toccarla…. Quanto pesa? Ah, si alza bene, più leggera di quel che sembra, ma neanche così leggera come quelle coppette che si vincono all’invernale. L’hanno costruita i gioiellieri della regina Vittoria, Garrard a Londra. Ne sono stati fatti due esemplari, è stata pagata 100 Ghinee ma ormai il suo valore è senza misura. E’ il Trofeo dello sport internazionale che si disputa ininterrottamente dalla sua nascita, se si esclude qualche parentesi bellica. Una delle leggende racconta che il secondo esemplare sia stato comprato da Ted Turner e sostituito con l’originale. Dunque la vera Coppa America sarebbe rimasta sul caminetto dell’inventore della CNN che l’ha vinta nel 77, ultimo “gentlemen driver” a riuscirci prima dell’era Conner e del professionismo attuale. Ci voleva provare Bertarelli…. ma abbiamo visto com’è andata. Insomma, io al momento mi contento della foto… che è già tanto.

Complice una perturbazione che genera vento fino a 45 nodi il poliscafo di Frank Cammas sta viaggiando costantemente a 33/35 nodi e guadagna rispetto alla tabella di marcia del record di Orange II mentre si avvicina a Capo Horn. Il suo vantaggio è di 340 miglia. Le scene di navigazione sono quelle cui ci ha abituato anche la Volvo Race: acqua soprattutto, sopra e sotto la barca. Per il francesce Frank Cammas, che ha avuto un ruolo importante nella realizzazione di Bmw Oracle, il record è alla portata. La sua prossima avventura tuttavia sarà nella Volvo Race cui parteciperà con lo sponsor di sempre e una barca disegnata dal vincitore delle ultime due edizioni con Abm Amro e Ericcsson, l’armeno argentino Juan Koumdjian. Alla comparsa delle sue barche in banchina qualcuno disse, comparandole ai progetti Farr: “qui qualcuno ha sbagliato”. Aveva ragione lui, con poppe più larghe di settanta centimetri.
Cammas sta navigando con un equipaggio di nove persone a una latitudine di 55 gradi sud, potrebbe scendere ancora verso i sessanta, rotta considerata proibitiva e in molte regate ormai interdetta perchè troppo pericolosa per la presenza di ghiaccio.

Alcuni dei più noti giramondo a vela stanno affrontando il mare più pericoloso del globo, quello dove a far paura non sono le tempeste ma la presenza dei pirati somali. Le barca a vela sono di solito un bersaglio poco interessante, perchè ormai i pirati hanno imparato che si tratta in generale di materiale, umano e non, di poco valore se confrontato alle grandi navi che vengono fermate alla caccia di riscatto. Tuttavia non si può mai sapere. Sono partiti da una piccola rada dell’Oman un paio di convogli. In uno navigano delle vecchie conoscenze come Gigi Nava e Irene Moretti, gli skipper di Adriatica e della Numero Uno, attualmente a bordo id Akoya. Sono con Horace di Decibel, il compagno di una redattrice di Yacht Capital che ha scelto di vivere attorno al mondo. Per proteggersi dagli attacchi hanno scelto di navigare ragionevolmente vicino al canale protetto dalle forze militari, ma non proprio nella zona dove possono essere “cercati”. Ovviamente c’è un contatto radio continuo su frequenze poco esplorate dai pirati, come quelle in onde corte SSB con cui si tengono anche in contatto con gli amici in Italia.
Come si può vedere dalla foto in attesa della partenza c’è una piccola flotta di barche di tutti i tipi, che arrivano in genere dalle Maldive.
Per saperne di più è molto interessante il blog di Horace
Decibel
Anche Gigi e Irene hanno un blog
Akoya