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Volare sull’AC 72

Questo articolo rivisto e riletto dopo qualche mese dai fatti e dopo tutto quello che è successo fa un certo effetto. Da qui in poi infatti saranno davvero pochi gli ospiti ammessi a bordo degli AC 72. Adesso mi chiedo se “dovevo” aver paura, idea che non mi ha sfiorato per un secondo nelle ore passate a bordo nel mitico Golfo di Hauraki. Forse perché  ho visto la sicurezza dell’equipaggio kiwi ed ero seduto di fianco a Glenn Ashby. Sono convinto che quello che è successo a Andrew Simpson è stato anche, come dice Max Sirena, il frutto di una catena di eventi che prendono anche il nome di sfiga. Brad Butterworth afferma che una morte “in porto” è inaccettabile e ha ragione. Un conto è perdersi a Capo Horn, altro a centianaia di metri da riva, con attorno i gommoni.
Comunque questo è il resoconto a caldo di una giornata di ottobre passata a bordo di ETNZ AC 72.

E’ stato incredibile, una giornata da ricordare… a poche ore dal varo di Luna Rossa a Auckland mi sarei contentato di seguire New Zealand dal gommone, vederla navigare da fuori. Invece mi hanno invitato a bordo e per un regalo vero per cui è bastato un Sms di Warren Douglas, ufficio stampa ETNZ.  Questa confidenza oltre tutto è stata il sintomo di un cambiamento radicale del grado di protezione dei segreti nel design preteso dai team: chi non ricorda i tempi delle barche protette dai teloni, cui era impossibile avvicinarsi pena essere malmenati da qualche energumeno. Invece è stato facile, certo i kiwi mi conoscono da anni, ma questo non sarebbe certo bastato, in altri tempi se non per essere invitato a una festa di fine regate. Ho già navigato con i silenziosi kiwi, un equipaggio tanto diverso in regata da ogni altro, a loro bastano poche parole a prendere le decisioni più gravi. Anzi sguardi: Barker muove la testa e tutti corrono per la virata. Questa grande nazionale della vela neozelandese pianta le radici nella lontana sfida di New Zealand per l’edizione ’87 a Perth Australia, la barca di plastica, passa attraverso la grande vittoria del ’95 con l’eroico Peter Blake. Molti di quei “ragazzi” hanno proseguito e vinto in ogni mare, intrecciando i loro destini. Se la sfida vincente ha provocato un vero caso nazionale, tesi di laurea comprese, la sonora sconfitta del 2003 è stata protagonista di interrogazioni parlamentari e adesso tutti rivogliono la Coppa nella sede del Royal New Zealand Yacht Squadron.
Il messaggino diceva “sail for you tomorrow at 8 30”, qualche minuto di attesa e siamo a bordo, stacchiamo dalla banchina: fin dall’inizio è tutto veloce, più veloce di qualsiasi altra barca: il traino (e ci sono molte miglia dal Viaduct Basin fino al golfo dove ci si allena) è a 25 nodi, quando il gommone rimorchiatore (quattro motori da 300 cavalli, plana mentre traina) ci lascia e l’equipaggio si prepara all’allenamento si naviga a 10 nodi spinti solo con dall’ala libera, cioè senza scotta che addirittura non è ancora passata nel bozzello: lo sarà in diretta sul winch su un bordo e con un paranco che smezza la corsa sull’altro. Mi pare tutto molto semplice, facile. Tra gli undici dell’equipaggio, ma siamo di più con i tecnici, alcuni mitici personaggi dello sport. Le prime prove sono di bolina, ala e fiocco piccolo, è facile vedere lo speedometro salire a 22, 24 nodi, non siamo in “foiling” e so bene che il boccone migliore deve ancora arrivare. Quando Dean Barker decide finalmente di issare il gennaker la barca ha un balzo. Quando pronuncia la parola magica “testing” New Zealand decolla sulla deriva, sul mitico Golfo di Hauraki soffiano 16 nodi di vento reale e in pochi secondi navighiamo a 33, 5 stabili sui tre punti. Per regolamento infatti può essere immersa una sola delle derive e i tre punti che sostengono in “volo” sono la deriva sottovento e i due timoni. In realtà quello sopravento ogni tanto esce e fischia, schiaffeggia l’acqua. Per questa uscita Emirates Team New Zealand monta due derive a sciabola che terminano con un’ala orizzontale, è l’unica barca progettata fin dall’inizio per volare. La deriva può essere mossa in diverse direzioni, immersa più o meno secondo le andature. Più tardi mi racconterà Giovanni Belgrano “non capisco le scelte degli altri e soprattutto di Oracle, a noi sembrava evidente che volare fosse la strada da percorrere, la nostra barca è pensata con i pesi a poppa per essere sempre stabile”. A bordo si registra ogni cosa: prestazioni e carichi, ogni giorno dei 30 a disposizione per questa prima fase che finisce in dicempre 2012, deve essere sfruttato al meglio.
Per salire a bordo mi hanno fatto indossare il salvagente da big jim, l’inguardabile casco, la bomboletta di ossigeno da usare in caso di ribaltamento, per fortuna si fidano del mio piede marino e posso circolare senza troppi confini. Si preoccupano quando, durante un cambio vele, metto il naso dentro la scassa della deriva: la pinna può muoversi in tutte le direzioni e viene usata in diverse configurazioni, non sempre alla massima immersione. Volare è una decisione dell’equipaggio e non solo il risultato della velocità che sale. Dopo la giornata Dalton confessa “siamo troppo stabili, si decolla troppo bene, secondo me vuol dire che c’è da limare, ridurre le superfici bagnate. Vedrai, Luna Rossa sarà di sicuro più veloce di noi ed è la prima volta che sono contento che un avversario sia più rapido di New Zealand: vuol dire che percorriamo la strada giusta e la nostra seconda barca sarà più forte”. Quando racconto il commento ai ragazzi di Luna Rossa ottengo solo qualche grugnito, il programma sviluppo velocità è da divulgare poco. Non ho avuto nessuna sensazione di pericolo.. si certo la velocità è tanta: il vento apparente a bordo supera agevolmente i 40 nodi, mi raccontano che non è raro leggere 60 nodi in testa d’albero… del resto basta fare due conti: 25 di reale più 45 di velocità… Pochi giorni dopo un collega neozelandese ha navigato a 44 nodi, con tanto vento in più: è sceso da New Zealand estasiato. Glen Ashby è categorico: “con una vela tradizionale sarebbe quasi impossibile gestire le manovre, faremmo a pezzi le stecche”. Per regolare l’ala si contenta di un piccolo winch con la scotta in diretta, il carico è di circa una tonnellata. Volete fare paragoni? Una vela tradizionale grande uguale potrebbe arrivare a un carico di scotta di 25/30 tonnellate . Questo è uno dei grandi vantaggi dell’ala rigida. L’ala di New Zealand ha un sistema complesso di regolazioni interne per modificare il twist. Sempre Ashby illumina “possiamo navigare con molto vento perché riusciamo a rendere negativa la parte alta, quindi a creare raddrizzamento e non sbandamento…”. E’ prevedibile che gli americani corrano ai ripari, non hanno la stessa possibilità, almeno nelle prime ali, non ci hanno creduto. L’ala è tutto, le altre vele sono semplici: il fiocco serve più per le manovre, che per la propulsione, il gennaker fa… ma di quello sappiamo tutto.
Differenze dal monoscafo? Sono stato su tante barche della Coppa: i J Class hanno un incedere maestoso, i 12 metri invece sembrano soffrire, gli Iacc sono complessi, tanta gente a bordo, piccole regolazioni, il timoniere è prigioniero del randista. Gli AC 45 sono nervosi, una sensazione di pericolo molto maggiore che sugli AC 72. Match racing? Mah… sarà una regata tanto diversa. Il canale del percorso è piuttosto stretto e prevedono sette virate per bolina e tre strambate per ogni poppa, bordi obbligati sul vento. Questa insomma sarà un’altra storia, tutta da scrivere e vedere. Una regata nuova, non sappiamo ancora se meglio o peggio. Diversa si. Del resto dal 1851 vince la barca più veloce e la ricerca è sempre stata in quella direzione. Perfino i J Class che adesso ci sembrano “barche d’epoca” sono stati disegnati con la collaborazione di ingegneri aeronautici.